Il debito pubblico italiano, nonostante non sia in prima pagina frequentemente, rappresenta uno dei principali problemi economici irrisolti che si affianca ai tradizionali come bassa crescita e disoccupazione e i più recenti relativi alle banche.
Il suo livello ha continuato a registrare continui record nei mesi scorsi raggiungendo la cifra di circa 2.250 miliardi di euro nel giugno 2016, un valore che supera ampiamente il 130% del PIL Italiano e che corrisponde a circa 36.000 euro di debito pro capite per i circa 62 milioni di italiani.
Il vero problema del debito, tuttavia, non è il suo valore assoluto ma quanto il suo costo incide sull’economia italiana. Il Tesoro italiano paga circa 70 miliardi di interessi sul debito ai suoi detentori. Questo significa che una parte di tali interessi (che lo stato finanzia tramite il prelievo fiscale) ritorna ai cittadini detentori di titoli di stato quali BOT o BTP. Tuttavia, poiché circa il 40% del debito è detenuto da investitori stranieri, una fetta di queste risorse lascia comunque il sistema Italia. Poter ridurre gli interessi sul debito libererebbe risorse aggiuntive da poter investire in crescita occupazionale e politiche sociali. Come può essere raggiunto questo obiettivo e come i decisori politici si sono mossi in questi anni ?
Una prima modalità è tramite la crescita: un PIL in crescita significa maggiori entrate che possono essere impiegate per ridurre l’ammontare totale del debito via via nel tempo. Tuttavia la crescita economica è il risultato di anni di corrette politiche economiche, richiede quindi del tempo prima di manifestarsi e le stesse risorse aggiuntive che si cercano per stimolarla si cercano proprio tramite la riduzione del debito. Insomma un cane che si morde la coda. L’Italia, nell’ultimo decennio, ha mostrato tassi di crescita più bassi rispetto alla sua storia e soprattutto a molti paesi nel mondo e quindi una soluzione di riduzione del debito basata solo su quest’ approccio, benché auspicabile, richiederà molti anni.
Negli ultimi anni una soluzione più rapida è stata invece offerta da un fattore esterno all’Italia e alle sue politiche economiche, vale a dire dalla politica di riduzione dei tassi di interesse voluta dalla Banca Centrale Europea. Tuttavia si tratta di condizioni eccezionali che difficilmente saranno presenti per lunghi anni a venire e che quindi rappresentano solo un’opportunità contingente da sfruttare per adottare soluzioni maggiormente sostenibili nel tempo.
Storicamente molti dei debiti pubblici accumulati dagli stati sono stati “ridotti” attraverso l’inflazione. Infatti, se l’inflazione sale, il debito che è un valore nominale “scende”: per capirci se ho un debito di 500 euro e uno stipendio di 500 e, a causa dell’inflazione, il mio stipendio aumenta nel tempo, per esempio a 1000 euro, il mio debito passa dal 100% del mio stipendio alla metà. Il controllo dell’inflazione è un obiettivo chiave per la BCE e Draghi sta facendo di tutto per portarla al livello considerato ottimale di circa il 2% annuo, ammonendo in continuazione sui rischi di una situazione deflattiva. Eppure in Italia rimaniamo ancora in una fase di inflazione pari a zero o di deflazione. Esistono inoltre fenomeni globali, come le innovazioni tecnologiche o l’accesso a mano d’opera a basso costo di altri paesi, che contribuiscono a mantenere bassi livelli inflattivi. E’ difficile al momento stabilire quando e se riavremo in Italia tassi di inflazione prossimi al 2% e duraturi nel tempo.
Una delle più classiche soluzioni di riduzione del debito, in condizioni di crescita economica debole o negativa (in pratica quello che è successo in Italia negli ultimi anni) è l’aumento delle tasse e/o la riduzione della spesa pubblica. Queste soluzioni, però, da un lato sono politicamente e socialmente molto difficili da implementare e allo stesso tempo impattano ulteriormente in maniera negativa sulla crescita economica: maggiore pressione fiscale e minore spesa pubblica sono infatti politiche economiche restrittive che riducono la crescita ulteriormente. Anche in questo caso un cane che si morde la coda.
Un’ulteriore soluzione, questa ancora più difficile da far passare politicamente, sarebbe una consistente vendita di beni pubblici. Le piccole privatizzazioni degli ultimi anni sono state incoraggianti ma nulla rispetto allo stock di quasi 2.300 miliardi di debito. Servirebbe una vendita di beni per almeno 500-600 miliardi (tecnicamente conferendo beni statali in una società che poi potrebbe vendere, sotto forma di azioni, le quote societarie a vari investitori, italiani e non) per risparmiare magari 15-20 miliardi di interessi da convogliare su investimenti per favorire la crescita economica.
E per finire si potrebbe arrivare e storicamente è già accaduto, anche se non in maniera traumatica, a una mega patrimoniale sui conti correnti (ricordiamo la manovra del governo Amato con il prelievo del 6 per mille una tantum su tutti i conti correnti nel 1992 oppure la mini patrimoniale, attualmente del 2 per mille, su quasi tutti gli asset finanziari introdotta dal governo Monti del 2011) e beni immobiliari (vedi la reintroduzione dell’IMU da parte del governo Monti nel 2011 per fronteggiare lo spread a 600 punti).
In sintesi: le politiche di quantitative easing (tassi di interesse a zero) degli ultimi anni in Europa così come in Giappone ed altri paesi nel mondo cominciano a mostrare forti segnali di affaticamento e qualora l’inflazione tardasse ancora a manifestarsi così come la crescita, l’Italia correrebbe il serio rischio di dover prendere in considerazione, oltre ai classici aumenti di imposte e tagli alla spesa, una mega vendita di beni pubblici o nuove patrimoniali per poter fronteggiare il rischio di un debito fuori controllo!
Alberto Marracino
Consulente finanziario
Cell.: 338 7195083