Suscita curiosità e interesse la Mostra de “Le copie dei Mosaici Antichi di Ravenna a San Salvo. Città portuali dell’Adriatico e arte musiva tra IV e VI sec. d.C. (con un’incursione nel mosaico abruzzese del XXI secolo)”, allestita presso il Museo Archeologico Civico, la Chiesa di San Giuseppe e la Casa del Mosaico romano.
Dopo il convegno di apertura, ogni sera – ad eccezione del lunedì – la mostra viene visitata da persone provenienti soprattutto da località vicine o in vacanza a San Salvo-Vasto. Non mancano i gruppi organizzati, tra cui i club Lions di Ravenna e Vasto, i partecipanti al “Prodotto Topico” di San Salvo (17 luglio), i soci di Italia Nostra del Vastese (il 9 agosto) e altri che si annunciano provenienti da Celenza sul Trigno, da Genk (Belgio) e da altre località. Durante la “Notte bianca 2016” (13 agosto), circa 350 persone hanno potuto osservare la Mostra dei mosaici e il Museo archeologico che la ospita.
“Si tratta – commenta il sindaco di San Salvo Tiziana Magnacca – dell’evento culturale più importante di questa stagione che stiamo ospitando all’interno del Museo Archeologico Civico. E’ un’opportunità per far conoscere da vicino gli stupendi mosaici ravennati e nel contempo far apprezzare il nostro Museo. San Salvo sta investendo sulla cultura come valore sociale ed economico da cui non si può prescindere. Un motivo in più per fare una visita alla nostra Città e i numeri delle presenze ci stanno dando ragione”.
Nel frattempo gli archeologi della cooperativa Parsifal, che guidano le visite, approfondiscono lo studio delle opere e delle tematiche della Mostra, proseguendo un percorso già iniziato lo scorso 9 luglio.
Ravenna o Bisanzio. Il mosaico paleocristiano e bizantino
di Linda Kniffitz
I monumenti antichi di Ravenna, dichiarati Patrimonio dell’umanità nel 1997, custodiscono cicli musivi paleocristiani e bizantini, di eccezionale finezza e di alto valore artistico.
Ravenna e Roma, e in parte Salonicco, sono le città più ricche di monumenti cristiani primitivi che abbiano vero valore di confronto con l’arte bizantina d’Oriente fiorita a Costantinopoli.
La capitale dell’Impero Romano d’Oriente, Costantinopoli, a causa delle invasioni barbariche che stanno attraversando l’Italia, e la lenta decadenza che ne deriva per tutto l’Occidente, diviene già alla fine del IV secolo la città più importante dell’Impero, non solo da un punto di vista politico e militare, ma anche come centro di elaborazione di forme e tecniche che, derivate dall’arte romana e nutrite d’apporti orientali, sfoceranno nell’arte bizantina.
Gli studiosi hanno elaborato numerose teorie sulle ascendenze, la paternità e i caratteri dello stile tardo antico. Josef Strzygowski in Orient oder Rom (Oriente o Roma. Contributi alla Storia dell’arte Tardo-antica e Paleocristiana, Leipzig, 1901) ipotizza che l’architettura medievale europea si sia ispirata fortemente alle tradizioni del Medio Oriente e non abbia origini classiche. Di contro Giuseppe Galassi in Roma o Bisanzio. I Musaici di Ravenna e le origini dell’arte italiana (Roma, 1930) rintraccia due tendenze stilistiche, l’una romana, l’altra bizantina, che si evolvono in diverso modo nel corso del V e del VI secolo. Afferma che dall’età giustinianea a Ravenna si afferma lo stile occidentale romano, con la creazione di una scuola locale, che ricerca una propria via estetica, dapprima esprimendosi con i caratteri della Roma imperiale, in seguito con i caratteri della tradizione latina, italiota, romanica. Un’unità di stile che si riscontra anche in ambito alto-adriatico: Grado e Parenzo, in Croazia, poi Venezia e Torcello.
Certo è che Ravenna e Costantinopoli intrattengono complesse relazioni politiche e culturali fra V e VI secolo, da quando la prima diventa capitale dell’Impero Romano d’Occidente nel 402, fino a tutto il periodo dell’Esarcato.
Se appare abbastanza condivisa dagli studiosi l’ipotesi di una dipendenza culturale di Ravenna e dell’Occidente da Costantinopoli nei modelli architettonici e nelle sculture di arredo liturgico – con l’eccezione di Beat Brenk, che riconosce delle tendenze autoctone nell’architettura ravennate di VI secolo – non si può ostentare altrettanta sicurezza quando si passa a considerare l’arte parietale, e in particolare il mosaico paleocristiano.
Per articolare un’analisi critica è utile ricordare alcune leggi promulgate tra fine IV e inizio V secolo: i Decreti teodosiani sono una serie di decreti emessi da Teodosio I, tra il 391 e 392, per perseguitare i pagani e incamerare i loro beni. Rappresentano l’attualizzazione pratica dell’Editto di
Tessalonica, promulgato sempre da Teodosio, insieme a Graziano e Valentiniano II nel 380, con cui si dichiarava il Cristianesimo unica religione di Stato dell’Impero.
A questi si aggiunge l’Editto di Giustino del 523 – ispirato da Giustiniano – con cui si costringono gli ariani residenti in Oriente ad aderire al rito cattolico-romano, si chiudono i loro luoghi di culto, e, di fatto, si provocano le Guerre Gotiche contro Teoderico re d’Italia, che professava l’arianesimo. Questi editti danno un enorme impulso alla produzione di immagini devozionali centrate sul messaggio della nuova ortodossia cattolica, peraltro in fase di continua rielaborazione.
Inoltre nel 410 un evento tragico scuote l’Impero dalle fondamenta: il Sacco di Roma, perpetrato con estrema violenza dai Visigoti di Alarico. La capitale è già stata trasferita a Ravenna nel 402 e la corte è il salvo. Viene però presa prigioniera Galla Placidia, sorella dell’imperatore Onorio.
S. Agostino d’Ippona, sconvolto dalla violazione della città eterna, scrive il De civitate Dei contra paganos, dove esorta i fedeli a considerare la città di Dio come unica salvezza contro i barbari pagani.
Il mosaico absidale di S. Pudenziana a Roma (410 circa), considerato il primo mosaico parietale paleocristiano, intercetta gli avvenimenti storici coevi: sullo sfondo della città di Gerusalemme (città di Dio ove si trova il Santo Sepolcro) si staglia un Cristo in trono attorniato dagli apostoli. La resa delle figure è chiaramente di matrice classica. È stato osservato da Maria Andaloro che con questo mosaico si disattivano le funzioni di culto delle statue pagane e si segna il passaggio fra la tradizione plastica romana e l’avvento delle immagini narrative, proprie dell’arte paleocristiana.
Altri esempi coevi si possono rintracciare nelle decorazioni della Rotonda di S. Giorgio a Salonicco, con i Santi in posizione orante di fattura raffinatissima e tinte sfumate, dell’inizio del V secolo, e le decorazioni sistine di S. Maria Maggiore, a Roma (inizio-metà V secolo), che presentano uno stile concitato ed epico, non riconducibile a modelli preesistenti, se non forse alla plastica dei sottarchi trionfali e della Colonna di Marco Aurelio.
In un contesto in cui, chi domina, ha un potere assoluto e in un periodo storico in cui ancora non aveva avuto il sopravvento un canone dottrinario sufficientemente definito e stabile, la committenza imperiale ed ecclesiastica vuole lasciare un marchio ideologico ben visibile e reiterato Per attuare questa politica si sceglie il mosaico parietale. Sempre Andaloro sottolinea come il mosaico parietale antico di origine cristiana non sia il pendant di quello profano antico e non sia nemmeno una ramificazione di quello pavimentale. Il suo statuto è radicato in scelte fortemente programmatiche e fin da subito è un genere aulico per eccellenza: per il carattere esclusivo della committenza, una committenza forte – papi, imperatori, re e vescovi – per la preziosità dei materiali che richiede fondi consistenti, per la raffinata realizzazione tecnica, che sottintende una cerchia di artefici con competenze miste; quindi rappresenta un forte investimento simbolico.
Del resto l’uomo tardo-antico si percepisce incompleto, instabile e senza saldi fondamenti di certezze ideologiche date per acquisite. Allo stesso tempo ha comunque la sensazione di far parte d’n contesto di potere militare ed economico immenso.
Questo si rispecchia nelle sue rappresentazioni ed artefatti. Da una parte un’immagine smarrita di sé – che si rintraccia soprattutto nella plastica a partire dal III secolo, con l’uso del trapano per rendere la pupilla fissa, quasi attonita, spia di una sofferenza esistenziale -, dall’altra le icone e i simboli di un potere senza pari.
Ma veniamo alla domanda sotesa nel titolo di questo intervento: le decorazioni musive antiche di Ravenna sono frutto di maestranze bizantine provenienti da Costantinopoli?
Come già osservato, in epoca tardo-antica, il mosaico viene scelto appositamente per veicolare un messaggio di evangelizzazione, è il medium privilegiato di un messaggio didattico-dottrinale e
Ravenna, assurta al rango di capitale dell’Impero nel 402, diventa un cantiere ideale di elaborazioni teologiche, simboliche e artistiche. Qui si consolida la scelta del mosaico parietale come medium egemone dell’impero e del papato, dopo le prime esperienze di Roma, Milano e Salonicco. A Costantinopoli, nei secoli V e VI, il mosaico parietale di tipo narrativo forse era meno diffuso negli edifici religiosi rispetto all’Occidente. Sappiamo dal Lazarev dell’esistenza certa di un mosaico con la rappresentazione della famiglia imperiale di Leone I, nell’abside di S. Maria nel Monastero delle Blacherne, datato 473, ora perduto. Altre decorazioni musive antropomorfe presenti nelle chiese costantinopolitane sono state certamente distrutte dall’Iconoclastia, un movimento religioso che temeva l’idolatria delle immagini antropomorfe di Dio, nella prima metà dell’VIII secolo.
È interessante notare che se sul piano politico l’Iconoclastia permise di riportare sotto il controllo imperiale i vasti territori posseduti dai monasteri, toglieva anche ogni pretesto dottrinale ai predoni islamici, che accusavano i cristiani di idolatria.
Di certo sappiamo che i mosaici absidali di S. Sofia e S. Irene a Costantinopoli nel VI secolo rappresentavano una grande croce su fondo dorato.
A Ravenna, nell’edificio più antico, il Mausoleo di Galla Placidia, del 430 circa, nell’intradosso della parete d’ingresso, sopra la porta, campeggia il Cristo Buon Pastore con le sue pecorelle: un bellissimo giovane imberbe con lunghi capelli castani e la croce dorata della vittoria. A prescindere dal significato della scena (Cristo vincitore della morte che accompagna i fedeli alla vita eterna) è facile trovare dei collegamenti stilistici con le rappresentazioni dei Santi nella Rotonda di S. Giorgio a Salonicco, del primo quarto del V secolo, in particolare con la testa di S. Onesiforo.
E ancora il S. Lorenzo (o Cristo con Croce astile come ritiene Rizzardi) sulla parete di fronte, ricorda, nella trattazione del volto e della capigliatura, il volto di S. Vittore in ciel d’oro, nella cappella omonima della chiesa di S. Ambrogio a Milano.
Nel Battistero Neoniano troviamo ancora dei chiari riferimenti alla Rotonda di S. Giorgio a Salonicco, sia nella rappresentazione dell’Etimasia (troni vuoti che prefigurano la seconda venuta del Cristo) presente in entrambi i monumenti, che nella danza circolare dei santi attorno alla cupola, che nel Battistero diventa il corteo degli Apostoli, nella seconda fascia decorativa. Ma qui troviamo anche reminiscenze delle pitture pompeiane: alcuni ritratti degli apostoli (S. Pietro su tutti) possono accostarsi al ritratto di Paquio Proculo a Pompei, ora al Museo Nazionale di Napoli.
Ma gli influssi stilistici possono essere molto più vicini di Milano e Salonicco, possono provenire dallo stesso edificio nel quale si trova il mosaico parietale: in S. Vitale alla base dell’arco trionfale sono collocati due raffinatissimi altorilievi, noti come Troni di Nettuno, del I secolo dopo Cristo. Nella cornice di entrambi sono visibili coppie di delfini con le code intrecciate. Ebbene nell’intradosso dell’arcone i clipei degli Apostoli presentano un motivo molto simile di delfini accoppiati e con code intrecciate, ma del VI secolo.
Questi troni, molto conosciuti nel Rinascimento, saranno citati nel famoso incunabolo Ipnoerotomachia Poliphili, e lo stampatore Aldo Manuzio trarrà da essi la sua celebre marca con il delfino.
Ma tanti altri esempi, relativi a motivi decorativi fitomorfi o astratti, attestati a Ravenna, si potrebbero portare a sostegno della tesi dell’esistenza di una tradizione iconografica ravennate, che rielabora una tradizione romana e occidentale .
Di più, le maestranze musive ravennati, come indicava Galassi, esportano la loro scuola nell’area adriatica, in particolare in Istria dove decorano S. Maria Formosa a Pola e la Basilica Eufrasiana di Parenzo.
Sebbene abbiamo escluso di poter rintracciare decorazioni parietali dello stesso periodo a Costantinopoli, perché solo dal IX secolo le scene musive narrative torneranno ad abbellire le magnifiche chiese bizantine, alcune chiese giustinianee a Cipro e nella penisola del Sinai presentano brani musivi di tipo narrativo. In particolare un confronto è possibile con l’abside di S. Caterina sul monte Sinai: i restauratori della Scuola del restauro della Soprintendenza di Ravenna, hanno verificato come l’uso delle tessere e le linee degli andamenti, ma anche i materiali naturali e artificiali, sembrano provenire dalle stesse fornaci, ma è del tutto evidente come lo stile e l’accostamento delle tinte sia di matrice ben diversa.
Possiamo quindi affermare che il corso della decorazione musiva di età placidiana, teodoriciana e giustinianea a Ravenna è certamente parallelo a quello di altri centri, quali Roma e Costantinopoli, ma anche Milano e Salonicco, ma in parte autonomo per stile e per scelte iconografiche, quale che sia la natura dell’immagine da presentare, di tipo epifanico o narrativo.
Tra V e VI secolo si forma uno stile che può dirsi ravennate, in evoluzione durante più di un secolo, animato da una cerchia locale di artefici, come affermava Giuseppe Bovini.
Certamente proprio i mosaici ravennati, più di altri, colpiranno la fantasia di tanti viaggiatori nel ‘700 e ‘800. Klimt, quando visita Ravenna nel 1903, subisce un’impressione fortissima dalle decorazioni musive degli antichi edifici religiosi. Per un lustro ricordi ravennati affioreranno nella sua produzione: i fondi oro, la purezza della linea, i giochi cromatici e decorativi, la superficie frantumata, fino ai richiami iconografici (la figura febbrile di Teodora in S. Vitale ispira fortemente il ritratto di Adele Bloch-Bauer).
Ma gli antichi mosaici ravennati e l’imperatrice Teodora in particolare, quasi un’icona pop, ispirano ancora i giovani artisti, e se ne rintracciano gli echi in opere contemporanee.
Come in epoca tardo-antica, l’essere umano post-moderno si percepisce incompleto, instabile e senza saldi fondamenti di certezze. Allo stesso tempo ha una sensazione di potere, economico e tecnologico, quasi immenso. Da una parte un’immagine dispersa di sé, dall’altra la messa a disposizione di un potere senza pari. Tutto ciò si riflette negli artefatti contemporanei: ne scaturiscono rappresentazioni sensibili che non riconoscono limiti formali se non quelli autoimposti.