Nato a Cortemaggiore, oggi vive a Roma. Menotti, al secolo Roberto Marchionni, ha però vissuto per tanti anni a Vasto dove l’uscita dell’atteso film “Lo chiamavano Jeeg Robot“, diretto da Gabriele Mainetti e con Claudio Santamaria di cui ha firmato la sceneggiatura insieme a Nicola Guaglianone, è stata accompagnata dall’entusiasmo di chi ha condiviso con lui gli anni della gioventù e che ne ha conosciuto le qualità artistiche agli albori di quello che è divenuto un bel percorso professionale. E, in un periodo per lui segnato da tantissimi impegni, siamo riusciti a rubargli un po’ di tempo per un’intervista.
La tua famiglia è originaria di Cortemaggiore (Piacenza). Come siete arrivati a Vasto?
Sono arrivato a Vasto nell’estate dei miei sette anni. Mio padre aveva convinto mia madre nel giro di cinque minuti, mostrandole dei filmini super8 che aveva girato lì durante un viaggio di lavoro. A Vasto sono arrivato alla quinta liceo, poi mi sono trasferito a Bologna per l’università. In seguito ho trascorso un paio d’anni a Berlino, finché nel ’98 ho cominciato a frequentare Roma. Mi ero dato un anno per vedere come andava, poi ci sono rimasto.
Cosa ti ha fatto avvicinare al mondo del fumetto?
Da bambino amavo disegnare e passavo i pomeriggi a riempire quaderni di macchine scassate e partite di calcio. A Bologna, a vent’anni, ho avuto la fortuna di passare le selezioni per frequentare la scuola Zio Feininger, dove insegnava un bel gruppetto di maestri del fumetto d’autore italiano – Igort e Brolli su tutti. I miei compagni di classe erano Gabos, Gibertini, Semerano, Ghermandi, tutta gente con le idee molto precise su cosa fare nella vita. Ripensandoci, non ricordo di aver preso decisioni particolari sulla mia carriera: scrivere e disegnare storie mi sembrava allora la strada più ovvia da seguire.
Da lì come è proseguito il tuo percorso?
Negli anni Novanta il mondo del fumetto d’autore ha subito una trasformazione profonda. Molte riviste storiche sono scomparse e la produzione si è spostata progressivamente dall’edicola alla libreria. Da una parte non ero particolarmente attratto dal fumetto mainstream, dall’altra gli esperimenti per coniugare popolare e autoriale stentavano a decollare – all’epoca uno dei motivi per lavorare in fretta era finire una serie prima che chiudesse la rivista che l’avrebbe pubblicata. Non essendo mai stato un feticista del fumetto in sé (sono più interessato alle storie che al mezzo per raccontarle), mi è sembrato giusto cercare altre strade.
Com’è il lavoro dello sceneggiatore per le serie tv?
All’inizio è stato uno shock. Abituato a lavorare da solo, godendo di una libertà pressoché totale, mi sono ritrovato in riunioni affollatissime a leggere copioni davanti a una pletora di editor, produttori, dirigenti, portaborse, ognuno con la propria legittima aspirazione a lasciare un segno su quello che sarebbe andato in onda. Inevitabilmente, il più delle volte restavo deluso dai risultati. Ma anche in questo caso, è più una questione di metodo che di mezzo. Molte serie televisive recenti, anche italiane, realizzate pensando alla storia da raccontare piuttosto che a un partito da compiacere o a un produttore da far lavorare, dimostrano che la tv di alto livello esiste. I Sopranos o Gomorra sono capolavori almeno quanto Pulp Fiction o C’eravamo tanto amati.
E poi l’approdo alla scrittura per il cinema.
Innanzitutto non lo considero un approdo in senso qualitativo. Cinema, televisione, fumetto: al di là dei mezzi, la differenza più importante è tra opere belle e opere brutte. Nello specifico, tutto sta nel convincere un produttore a investire tempo e denaro su una storia che si ritiene valida. Talvolta succede di vedersi rifiutare un soggetto e venire ingaggiato per scriverne un altro. Al cinema lavorare è più facile, perché si è in pochi e si ha tempo di chiarirsi le idee fino allo sfinimento. In genere c’è anche più libertà, ma non è affatto una garanzia di riuscita. La mancanza di libertà creativa è un paravento dietro cui gli artisti amano nascondere le proprie magagne.
Perchè Menotti?
Menotti era il nome di battesimo del mio nonno paterno, che per una certa tradizione italiana sarebbe dovuto diventare il mio. Mia madre, non sorprendentemente, si è guardata bene di rispettarla. A rimettere a posto le cose ci ho pensato io vent’anni dopo. Volevo trovarmi uno pseudonimo da fumettista e poiché con mio nonno avevo un ottimo rapporto, ho usato il suo nome. All’epoca disegnavo illustrazioni per il Manifesto, ed essendo lui un po’ fascio, si vergognava ad andarlo a comprare. Sicché mandava un amico a farlo per lui, poi gongolava guardando la sua firma pubblicata.
Come sei arrivato a scrivere la sceneggiatura di ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’ insieme a Nicola Guaglianone?
Jeeg Robot è il terzo film che scrivo, ma il primo effettivamente realizzato. Ho conosciuto Nicola lavorando a una serie per Rai Due e insieme abbiamo da subito funzionato bene. Lui è l’autore dei corti di Gabriele Mainetti e al momento di scrivere il suo film di esordio, mi ha chiesto di partecipare. Ne è nato una sorta di triangolo virtuoso al quale ho contribuito con la mia esperienza da fumettista e uno sguardo molto esterno al Grande Raccordo Anulare.
C’era molta attesa per l’uscita nelle sale. Recensioni molto positive, il pubblico gradisce molto. Cosa secondo te colpisce così tanto l’attenzione di addetti ai lavori e pubblico?
Oltre a essere girato molto bene, Jeeg Robot racconta una storia originale: prende i protagonisti di due tradizioni diverse e apparentemente inconciliabili – i supereroi dei fumetti americani e la peggio gioventù pasoliniana – e li fa scontrare insieme. Ma ciò non servirebbe a nulla se la storia non fosse anche universale. A dispetto della sua fortissima connotazione locale, è un film che esplora ambizioni, desideri e sentimenti con i quali chiunque è in grado di identificarsi. Il cinema italiano contemporaneo non è abituato a produrre storie di questo respiro. Non è un caso che Mainetti abbia dovuto produrlo quasi tutto da solo.
Che ricordi hai dei tuoi anni a Vasto? È un legame ancora vivo?
Devo ammettere che i primi anni sono stati piuttosto duri. In qualità di emigrato al contrario, da piccolo ho avuto esperienze non molto diverse da quelle di tanti ragazzini meridionali trasferitisi al nord. Per dire, i primi coetanei che ho incontrato mi hanno chiesto a bruciapelo “come ti rimetti?“. E io, non avendo la più pallida idea di cosa volessero sapere, ho fatto tutt’altro che una gran bella figura. Sul finire dell’adolescenza ho conosciuto persone diverse e ho cominciato a guardare la città con occhi del tutto nuovi. Ora ci torno sempre molto volentieri. E’ il luogo dove vive mio padre e al quale devo gran parte di ciò che sono ora.
E per il futuro cosa hai in cantiere?
Con l’uscita del film sono fioccate proposte di lavoro ma in questo settore, su dieci progetti in ballo, è una fortuna se se ne concretizza uno. Tra i progetti a cui tengo di più, ho ripreso in mano “Echo Hotel” una sceneggiatura scritta con mio fratello Marco Marchionni. E’ la storia di un radioamatore italiano dei primi anni Sessanta che si innamora di una cosmonauta sovietica perduta nello spazio. Lei è in orbita attorno alla terra e non sa come tornare giù.