Conviene ancora investire sul mercato azionario americano con una classica strategia di acquisto azioni o fondi di investimento tradizionali? Molto probabilmente no. Cerchiamo di capire il perché di tale affermazione.
Andando a riprendere alcune indicazioni di una ricerca dell’ Office of Financial Research del marzo 2015 sul mercato azionario americano (il cui principale indicatore è l’indice S&P 500) notiamo come l’attuale rialzo (rally) dai minimi del marzo 2009 stia perdurando da oltre 6 anni e mezzo (circa 80 mesi) senza particolari interruzioni. Dal 1932 vi sono stati 13 rialzi e solo due di questi, tra il 1946 e 1956 e tra il 1990 e il 2000, hanno avuto una durata superiore agli 80 mesi (la media è 56).
Dopo una discesa del 56% dai massimi dell’ottobre 2007 e dopo avere toccato un minimo di circa 700 punti nel marzo 2009, l’ S&P 500 ha triplicato il suo valore raggiungendo i 2100 punti. Anche in questo caso solo i rally tra il 1932 e il 1937 e tra il 1990 e il 2000 anno raggiunto performance superiori (circa 300% e 400% rispettivamente, la media è del 165%). L’inizio di un mercato ribassista andrebbe, con molta probabilità, a testare i livelli del 2007 a mio parere, vale a dire almeno un 25% di correzione dai massimi.
Un classico indicatore come il P/E (price/earnings), cioè il rapporto tra il prezzo di un’azione di una società e i suoi profitti storici o stimati per il futuro, viene spesso utilizzato per valutare la convenienza ad investire sull’azionario. Attualmente il suo valore, calcolato sui profitti storici negli USA è circa 20, elevato ma non allarmante. Quello calcolato sugli utili stimati (forward P/E) è vicino alla media storica, tuttavia non è stato storicamente valido nel predire forti correzioni del mercato, soprattutto poiché in periodi di boom economico gli analisti finanziari sovrastimano gli utili, dimenticando che i margini di profitto, attualmente ai massimi storici, tendono a convergere verso la media nel lungo periodo (per cui è probabile una flessione d’ora in poi).
Se guardiamo ad altri indicatori si può osservare come questi meglio segnalino livelli di sopravvalutazione del mercato. In particolare:
– il CAPE (cyclically adjusted price-to-earnings ratio) che considera una media a 10 anni degli utili delle società ha raggiunto livelli intorno al 30, superati in precedenza solo nelle crisi del 1929 e di inizio 2000;
– il Buffet Indicator, il rapporto tra il valore di mercato delle società quotate e il prodotto nazionale netto degli USA ha raggiunto il 150% contro una media storica di circa l’80%.
Un altro fattore di potenziale rischio è il livello di leva finanziaria (cioè soldi presi a prestito dagli investitori per comprare azioni sul mercato) che ha raggiunto i 500 miliardi di dollari a fine 2014, un valore storicamente elevato.
In sintesi, un rally più lungo del solito e con performance migliori del solito, importanti indicatori che segnalano degli eccessi di valutazione e l’eccezionale politica monetaria degli USA in questi ultimi anni suggeriscono estrema cautela nell’investire su questi livelli. Il 16 e il 17 settembre la Banca Centrale Americana (FED) deciderà se iniziare ad alzare i tassi di interesse (prima o poi dovrà iniziare…) un segnale che da un lato attesterebbe lo stato di salute dell’economia americana ma dall’altro che la festa è probabilmente finita per l’azionario, considerando anche le preoccupazioni di rallentamenti dell’economia cinese. Cosa fare quindi?
Investire con strumenti non convenzionali e soprattutto trovarsi un buon consulente finanziario.
Alberto Marracino
Consulente finanziario
Cell.: 338 7195083