Il 31 dicembre nelle chiese cattoliche si svolge il rito del Te Deum, un ringraziamento per l’anno che sta terminando e una preghiera per quello che inizia. Nel centro storico di Vasto ad annunciare la funzione sono i 365 rintocchi della campana di Santa Maria Maggiore, uno per ogni giorno dell’anno. La celebrazione inizia con la messa, poi l’esposizione del Santissimo, seguita dalla predica del parroco che, come da tradizione, è particolarmente articolata. Si chiude con le litanie e il canto del Te Deum. Pubblichiamo il testo dell’intervento di Don Domenico Spagnoli, parroco di Santa Maria Maggiore.
A conclusione di un anno è tradizione vivere insieme un rito che ha la valenza di non lasciar cadere nella banalità il tempo trascorso. Il rito ha appunto questa caratteristica, ossia il restituire importanza ad una tappa della nostra esistenza ponendola in relazione ad altre persone, visto che l’uomo è un animale sociale e proviene da una relazione e non può fare a meno di relazionarsi. Anche i riti che accompagnano l’ultimo giorno dell’anno civile, qualificano il vissuto umano: non lasciano che il tempo semplicemente “scorra” ma, attraverso la memoria, fanno sì che si riconoscano gli eventi. Il tutto può aiutare l’uomo e la donna a riprendere in mano la propria vita per farne un’esistenza, visto che la vita si riceve mentre l’esistenza comporta una scelta, un riconoscimento, un “ex-sistere” ossia prendere l’essere da. Il fermarci, il celebrare l’Eucaristia, il riflettere, il cantare e l’adorare dicono un riconoscimento: non vogliamo semplicemente subire il tempo che scorre inesorabile ma trovare un senso in tutto ciò che accade. Non vogliamo certo cadere nell’illusione dell’immortalità come ci ha ricordato recentemente il Papa: “alcuni pensavano di essere immortali, immuni e indispensabili”[1]; stiamo infatti per festeggiare un anno che se ne va e un altro che arriva e, senza accorgercene, non facciamo altro che celebrare la nostra provvisorietà. La pubblicità fa di tutto per convincerci della nostra terrena immortalità: dalla crema antirughe, alle polizze anti-tutto, dagli 8 airbag alle porte blindate; i consumi insomma cercano di anestetizzare la percezione del tempo che scorre ineluttabile. “Si fa un gran parlare di energie rinnovabili, delle risorse a rischio del pianeta; peccato che pochi si interroghino sul più prezioso e meno rinnovabile dei tesori dell’uomo: il tempo…”[2]. Eppure anche per noi saranno vere le parole del poeta Fernando Pessoa: “ Di tutto restano tre cose: la certezza che stiamo sempre iniziando, la certezza che abbiamo bisogno di continuare, la certezza che saremo interrotti prima di finire”. La percezione serena del limite è il primo passo per recuperare l’antica saggezza. Quella saggezza che faceva cantare ai nostri padri il “Te Deum” riferendo ogni cosa a Dio.
Le parole che sottendono al canto racchiudono infatti una lettura credente della storia. Mi piace sottolineare le prime e le ultime parole che fanno da cerniera all’inno: “Te Deum laudamus…In Te Domine speravi: non confundar in aeternum”; qui comprendiamo che in tutte le vicende della vita la cosa più importante è trovare sempre un motivo per lodare il Signore proprio perché è dal riferirci costantemente a Dio, anno dopo anno, nello scorrere dei mesi e dei giorni, che non smarriremo la via del senso. Le ultime parole del “Te Deum” ci assicurano infatti che chi spera nel Signore “non rimarrà confuso in eterno”. Possiamo essere per un po’ confusi, ma non finiremo i nostri giorni nella confusione del male. Il male confonde l’uomo e agisce mediante la confusione, volendolo lasciare nella tristezza del disordine. Ma chi confida nel Signore uscirà dalla confusione. Questa sera vogliamo rileggere l’anno in chiave di lode e di speranza: in Te ho sperato Signore non sarò confuso in eterno. Con umiltà vogliamo riconoscere la nostra umanità redenta. Siamo consapevoli di non essere noi la risposta alla storia ma di essere chiamati a dare la nostra risposta nella storia. La risposta alla storia è sempre è solo Cristo. Colui che si è unito a noi e alle nostre piaghe per portare il balsamo della sua tenerezza. Dio ascolta ieri come oggi l’invocazione umana e si fa gradualmente presente, fino a scavalcare i segni e i sogni umani, diventando tenera carne di bambino (nel mistero del Natale): la stessa sostanza degli uomini, le stesse tappe della vita, lo stesso sudore, lo stesso lavorare, lo stesso camminare, lo stesso morire. Il profano non viene ricacciato in un angolo, ma pienamente assunto e trasformato e, per questo, reso abitabile come luogo del sacro e del santo, senza esserne separato. Se Dio nella sua umanità ha fatto il falegname per trenta anni, la nostra umanità può essere pienamente divina nel quotidiano lavoro. I segni mortali sono entrati a far parte della carne di Gesù. Caravaggio nella tela “Incredulità di San Tommaso” del 1601 dipinge l’Apostolo mentre mette il dito nel costato, mostrando un Dio che non nasconde i segni del quotidiano, fatto di fallimenti, ferite e cadute. Non è un Dio scolpito nella perfezione sognata dall’arte classica, ma è la reale gloria di un corpo umano, fatto carne, tessuto nel grembo di una donna, Maria, e straziato dalla croce. La soglia allora non è più fuori dal tempo e dallo spazio, nella perfezione irraggiungibile ma “è riscattata qui, adesso, nel corpo, nella fatica, nel lavoro quotidiano, nella misura in cui lasciamo abitare dal divino la statua che siamo, fino a che la pietra diventi carne del divino per via di grazia”[3]. La soglia dell’incontro con Dio è in questo spazio e in questo tempo. Ma intanto un altro anno è trascorso.
E allora? Dobbiamo assolutamente educare il nostro cuore all’umiltà nel rendere grazie per tutto ciò che di bello abbiamo ricevuto e che di buono abbiamo potuto realizzare. Allo stesso modo dobbiamo chiedere perdono per tutte le occasioni che ci siamo lasciati sfuggire per incontrare quel Dio che ci veniva a cercare e che voleva servirsi di noi per arricchire la storia dei fratelli. Quante cose non sono andate bene anche per il nostro egoismo? Quante realtà potevano risultare più umane con un maggiore coinvolgimento? Quante volte abbiamo lasciato cadere nel vuoto una bella iniziativa solo perché non era stata pensata da noi. Quante volte abbiamo dubitato del bene che si stava realizzando? L’ultimo giorno dell’anno può diventare dunque sia a livello personale che comunitario, sia per la chiesa che per la società civile un momento che possa umanizzare il banale scorrere del tempo. Lo umanizza perché ci costringe a fermarci e a riflettere, ringraziare e chiedere perdono. Se sfuggissero queste dimensioni diventeremmo più poveri, se recuperassimo questi atteggiamenti, vi sembrerà strano, ma non solo diventeremmo più uomini ma ci avvicineremmo di più a Dio. Dio chiede al popolo lo sforzo della memoria perché la creatura possa imparare la lettura orante della storia in cui sempre opera la mano del Creatore. Anche in questo anno appena trascorso certamente vi sono stati dei motivi di gratitudine a Dio e agli uomini. Ognuno di noi può ringraziare per il dono della vita e per tutti i benefici ricevuti, davanti a Gesù Sacramentato solennemente esposto nell’antico ostensorio. Nel nostro ritrovarci credo sia opportuno inoltre esprimere dei propositi sia ad intra che ad extra. Ad intra, innanzitutto per quanti condividono un cammino di fede cristiano o volessero rilanciarlo nel prossimo anno 2015. L’invito è quello a facilitare l’esercizio della memoria attraverso l’esperienza del memoriale della Pasqua del Signore. Esercitiamo la nostra lettura credente dell’esistenza in quella Pasqua settimanale che è la Domenica. Perché non ripartire da quel terzo Comandamento del Decalogo che ci chiede di fermarci per rileggere il nostro tempo come un tempo pieno? Perché non impegnarci da questa sera a vivere quel comandamento che Dio per primo “si è imposto”? Il testo biblico ci dice che il Signore “…portò a compimento ciò che aveva fatto e cessò nel settimo giorno ogni suo lavoro” (Gen 2,2) a significare che per scoprire il riposo occorre contemplare le opere del Signore, e per contemplare davvero occorre ripartire dall’esempio di Dio. Per saziare il nostro cuore di gioia è necessario nutrirlo di eternità, eternità che si dona nel Segno della Parola e della Eucaristia. Chi di noi vorrà riscoprire la domenica come giorno per Dio e per l’uomo potrà accorgersi di quella custodia che proviene dall’appartenere a Dio. Allora si sveglierà dal sonno della illusione di credere di avere tempo o di non avere tempo. Noi non possediamo il tempo, non abbiamo effettivamente il tempo ma – come ha scritto qualcuno – “siamo tempo”, tempo che scorre e che – nella visione della fede – è visitato dalle eternità. Lasciamoci convincere che abbiamo bisogno di questa visita di Dio attimo dopo attimo, una visita che va contemplata nel Giorno del Signore, che va riconosciuta nella Messa domenicale luogo identificativo del cristiano. Cerchiamo di incoraggiare altri a questa sana abitudine di fermarci a Messa e di partecipare attivamente alla festa con il Datore di ogni bene. Rivolgiamo con coraggio ad altri l’invito a ritrovare equilibrio nella settimana ripartendo dal giorno festivo. Parafrasando un motto rabbinico potremmo dire: “custodisci la domenica e la domenica custodirà te”.
Per uno sguardo “ad extra”, ossia per la testimonianza da dare all’esterno e per tutti coloro che sono qui come laici incuriositi da una tradizione plurisecolare, mi permetto di riferirmi alla vigilanza su alcune malattie che forse possono vederci complici più o meno inconsapevoli. Mi riferisco al messaggio che il 22 dicembre scorso Papa Francesco ha rivolto a tutti i suoi collaboratori di Curia citando non più solo cinque piaghe della Chiesa (di rosminiana memoria) ma addirittura 15 malattie del credente chiarendo che queste “sono naturalmente un pericolo per ogni cristiano e per ogni curia, comunità, congregazione, parrocchia, movimento ecclesiale, e possono colpire sia a livello individuale sia comunitario”. Mi permetto senza alcuna pretesa di esaustività di riprendere solo tre malattie che possono riguardare anche la nostra realtà ecclesiale e civile, e come villaggio globale anche la nostra amata città di Vasto. Mi riferisco alla malattia della rivalità e della vanagloria, alla malattia dell’indifferenza verso gli altri e, in ultimo, alla malattia dei circoli chiusi dove l’appartenenza al gruppetto diventa più forte di quella del corpo. Questi malanni hanno come radice l’avidità che a, livello nazionale, si è espressa con l’esplosione della corruzione per cui Roma, la Capitale, non può esserci di modello. Eppure anche per noi il rischio è sempre a portata di mano. Queste tre malattie credo debbano essere tenute sempre sotto controllo perché, pur non potendo mai essere debellate del tutto, possono almeno essere riconosciute e combattute. Siamo vittime della rivalità e della vanagloria, siamo abituati all’indifferenza e bloccati nel nostro piccolo circolo quando viviamo in funzione di ciò che riguarda l’immagine. In alcune circostanze si nota come non importi la verità, ma ciò che possono credere gli altri, vedere esteriormente gli altri. Non interessa il bene della società civile o ecclesiale ma ciò che si potrà dire di taluno o talaltro. È la malattia che porta ad essere uomini o donne falsi, che Paolo definisce nella lettera ai Filippesi (3,19) “nemici della Croce di Cristo…si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra”. L’appiattimento di questi mali porta spesso a distruggere ciò che qualcun altro ha costruito o, peggio, a continuare secondo uno stile della gratificazione facile ed immediata senza preoccuparsi di costruire un futuro per le nuove generazioni. Alla radice di tutto c’è appunto l’avidità, origine del terribile cancro della corruzione. Al di là dell’espressione “Mafia Capitale”, la incresciosa storia può divenire l’occasione per riflettere sulle tante piccole o grandi corruzioni che si affacciano all’occhio di ognuno di noi. Ovunque c’è un minimo di potere da esercitare, si affaccia la tentazione di corrompere o di lasciarsi corrompere. La radice è sempre la stessa sottolineata dal Papa: si accumula potere, denaro, favori, consenso per avidità e quindi vanagloria. L’uomo che non sa distaccarsi dalle cose, gioire di una vita onesta non può che inquinare la società di una corsa frenetica verso il nulla. Perché la corruzione che tanto ci scandalizza è un rubare la speranza. Il dilagare della corruzione è una sciagura immane che grava sulla nazione. “Occorre acquisire ed educare al senso morale del bene e del diritto: educare alla giustizia. La crisi è morale: è frutto del corto circuito della morale. La vita comune ne soffre vistosamente. Il bene morale è piegato al bene vantaggioso e piacevole. Non importa essere buoni, giusti, ma vincenti e appagati; non conta essere veri ma furbi”. E così potremmo pensare ad una serie di piccole corruzioni che stanno alla base di una mentalità. Perdonatemi la semplicità degli esempi e vi prego di non fermarvi a questi riferimenti che cercano solo di incoraggiare la riflessione personale di ciascuno. Si uccide la speranza dei giovani e delle famiglie in mille piccole ingiustizie. Tutto ciò si esprime nei piccoli gesti quotidiani quando si agevola, ad esempio, una persona anziché un’altra non in base a dei meriti ma semplicemente per favoritismo, quando si offrono possibilità di riscatto sociale, di lavoro, di alloggio solo ad alcuni amici penalizzando altri perché della parte avversa. Quando chi più ha, più cerca di evadere a discapito del cittadino che a fatica porta a casa un solo stipendio. Si uccide la speranza quando si schiaccia la dignità dell’uomo o della donna costringendoli a lavorare in nero a ritmi inaccettabili e con paghe indicibili. Si diffonde diffidenza e si insinua la furbizia come “via civile” quando, per favorire alcuni, si calpesta il diritto di altri ad una vita serena, ad una città vivibile e decorosa per tutti, dove si possa passeggiare tranquilli in alcune vie del centro o poter riposare tranquilli di notte. Quando si fa serpeggiare in qualche modo una certa impunibilità si colpisce la speranza. Quando si diffonde una mentalità secondo la quale con il danaro si può comprare tutto si mortifica la legalità e l’onestà dei tanti cittadini. Quando il particolare viene prima del bene pubblico facilmente si rischia di lasciarsi prendere dalle vie dell’illecito nelle quali le persone sono numeri, cifre, oggetti di cui approfittare.
Eppure la società civile ha tutte le risorse per rialzarsi. Basterebbe essere disposti a cambiare ma a farlo insieme. Tutti dobbiamo cambiare qualcosa della nostra mentalità, del nostro stile di vita, delle nostre pretese così eccessive e accelerate. Si tratta di restituire dignità, rispetto, umanità anche attraverso una legalità e una attenzione al bene di tutti i cittadini in modo speciale di chi non ha voce. Perché trascurare il grido del povero, mancare di attenzione verso gli ultimi lascia una ferita nella società che, prima o poi, sanguinerà in modo mortale. Quale proposito di giustizia, dunque, vogliamo fare per il prossimo anno? Sia chiaro: l’uomo è attaccato da queste malattie morali ma è anche capace di rialzarsi, di prendersi cura di sé e degli altri. Dobbiamo ripartire da noi. Occorre imparare a “camminare accanto” e “non sopra” le persone. Camminare accanto come fa Gesù che convince con il bene, con la bellezza della Verità che produce frutti duraturi nel tempo e non gratificazioni effimere che lasciano l’amaro in bocca come le illusioni del guadagno facile. Gesù cammina accanto e non sopra le persone, perché sa che si costruisce bene solo rispettando le coscienze. Anche la nostra società almeno in questo può imparare da Gesù. Camminare accanto! E il credente dia il proprio contributo di speranza. Nell’impegno di onestà, legalità, rispetto sappia imparare dal Gesù Risorto che appare agli Apostoli. Il Risorto ha in sé i segni della passione. Così, riprendendo le parole di Mons. Tonino Bello, ripeto anch’io che il credente ha come Gesù “mani bucate e piedi forati”. Mani bucate non solo per aiutare il povero ma anche per distribuire il buon esempio, per donare il tempo di Dio ai fratelli, per usare i talenti in vista di una società migliore. Il credente poi ha anche i piedi forati. Condivide cioè le sofferenze dei poveri, cerca di gettare luce e senso su quelle malattie più o meno nascoste della vita umana, illumina con il Vangelo le ferite degli uomini mostrando la compagnia di Cristo nelle sconfitte. I piedi forati dei poveri hanno bisogno di trovare le nostre attenzioni anche quando non abbiamo una soluzione: Gesù è l’amico al quale dobbiamo condurre tutti coloro che hanno delle lacrime soffocate. Cristo è la Speranza delle genti. Cristo è la nostra Speranza.
Concludo con una preghiera di Suor Maria Pia Giudici:
Concedimi un cuore ospitale non solo per i giorni di festa, i facili giorni della gioia e del riposo, ma per tutti i giorni dell’anno, specialmente quelli più monotoni e sofferti o riarsi da una dura fatica. Concedimi un cuore ospitale per tutte le stagioni della vita, un cuore libero dall’ingranaggio del fare e strafare, dalle preoccupazioni del denaro e del successo, dal malessere di un eccessivo benessere, dalla ridda delle inquietudini egoistiche, dalla paura della malattia e della morte. Concedimi un cuore ospitale in cui l’amico possa entrare ogni momento e deporre il suo pesante fardello e il nemico trovi l’uscio socchiuso che non lo metta affatto a disagio e un fiore occhieggiante di sorriso come invito a sgelarsi ed entrare. Concedimi un cuore ospitale con il focolare acceso del saper amare e un calore umano, un palpito attento e delicato per ognuno che viene. Povero o ricco, giovane o anziano, del mio paese o di lontana nazione, possa il cuore scaldarlo di viva simpatia e accettarlo così com’è e prenderlo per il suo verso, collaborando con lui per “cieli e terra nuovi”. Amen
NOTE:
1. Papa Francesco, Discorso del 22.12.2014 ai collaboratori di Curia, in Avvenire del 23.12.2014, pp. 5-6
2. Gerolamo Fazzini, L’anno nuovo il nostro limite, in Avvenire del 30.12.2014, p.3
3. Alessandro D’Avenia, Oltre la soglia che ci separava, in Avvenire del 7.12.14, p. 2
Foto di Costanzo D’Angelo
Foto – Te Deum a Santa Maria Maggiore
Foto di Costanzo D’Angelo (Occhio Magico)