Nel percorso inagurato ad inizio anno da Zonalocale.it per conoscere le realtà aziendali che cercano quotidianamente di fare del proprio meglio per superare la crisi, dopo aver raccontato della sfida vinta da Michelangelo Del Vecchio di Temprasud, abbiamo cambiato decisamente settore e siamo andati ad incontrare Alessandro Triveri, oggi alla guida dell’azienda che porta il nome della sua famiglia. Un percorso inizato da suo padre Giovanni che oggi, anche se ha passato la direzione al figlio, non fa mancare mai il suo apporto, come ci ha spiegato nel corso dell’intervista. Come nel precedente appuntamento abbiamo evidenziato in rosso alcune parole chiave.
Come si è sviluppata la storia di Triveri?
L’azienda nasce a Firenze, città di origine della mia famiglia. Mio padre, insieme ai suoi genitori alle tre sorelle, iniziò a produrre delle conserve in modo molto artigianale, era il 1958. La necessità di avvicinarsi ai luoghi delle materie prima e anche l’eventuale opportunità di potersi allargare grazie agli incentivi della cassa del Mezzogiorno ci ha portato a trasferirci qui. Arrivata a San Salvo nel 1969 l’azienda ha cambiato dimensione e realtà. Continuando a produrre conserve in olio ha cercato di aumentare costantemente la qualità del prodotto. Poi, una trentina d’anni fa, ha iniziato a produrre anche conserve di pomodoro. Oggi stiamo aumentando produzione e fatturato. La strategia è quella di far crescere la produzione delle conserve di pomodoro e dei sughi pronti e di alzare sempre più il livello qualitativo delle conserve in olio, così da differenziarci dalla concorrenza di massa.
A quali mercati vi rivolgete?
Oltre al mercato italiano esportiamo in tutta Europa e anche in alcune nazioni extraeuropee, come Canada, Australia, Filippine, Indonesia, a spot poi anche negli Emirati Arabi. Non ci rivolgiamo alla grande distribuzione, anche perché non riusciremmo a soddisfare le richieste di quantità. Cerchiamo di essere in un mercato che privilegi la qualità.
Sul mercato italiano come vi muovete?
Abbiamo degli agenti, ma non è una rete molto ramificata. Sono dei “battitori liberi” che si muovono su tutto il territorio nazionale. Per la nuova linea di alta di gamma dei sottoli l’intenzione è quella di implementare una rete di agenti, ma senza spingere troppo perché il mercato è in stallo. Siamo un’azienda piccola se raffrontata ai grandi gruppi, quindi anche sulla rete di vendita abbiamo moltissimi margini di miglioramento. Invece, per quanto riguarda le conserve di pomodoro per la ristorazione, la vendita passa attraverso dei distributori. Diciamo che siamo un’azienda dal duplice volto: per i sottoli siamo ancora artigianali, facciamo quantitativi minimi, lavoriamo dal fresco, invasiamo a mano con metodi artigianali. Per le conserve alimentari siamo un’industria a tutti gli effetti, come si può capire dai circa 40mila quintali di pomodoro trasformati lo scorso anno.
Ci sono piani specifici per prossimi anni per l’implementazione della rete di vendita?
Io non conosco le reali potenzialità del nostro mercato. Produco una linea, la vesto, la cedo a una rete di agenzie che la propongono. Queste variabili sono quasi tutte delle incognite. E’ una cosa che vedremo. Ora la linea alta di gamma esiste, stiamo lavorando per non sbagliare e proporre il vestito giusto.
In tempo di crisi il settore del food è quello che riesce a sopportare meglio i cali. Per voi com’è la situazione?
Nel 2013 il nostro fatturato è aumentato del 25% rispetto all’anno precedente. Le strategie di un’azienda piccola sono molto più semplici e, direi, quasi ovvie rispetto ai grandi gruppi. Da una parte c’è un po’ la fortuna di far parte di una tipologia di prodotto, quella del food, che sente meno di altri la crisi, dall’altra quella di non doversi necessariamente al mercato locale. Il mondo è grande, pieno di opportunità, per un’azienda piccola come noi basta poco per un’inversione di tendenza rispetto all’andamento generale. Il settore del pomodoro, poi, merita un discorso a parte. L’Italia è leader mondiale per la produzione di pelati ma la forte crisi ha portato ad una scrematura dei produttori. Chi aveva delle strategie produttive e commerciali obsolete sta andando via e questo crea dei vuoti di mercato molto ampi, dove è possibile inserirsi. Noi quest’anno non riusciamo a soddisfare tutta la richiesta che abbiamo, non abbiamo abbastanza scorte per esaudire le richieste. Stiamo valutando di aumentare ancora la produzione, cosa peraltro già avvenuta nel 2013.
Quanti dipendenti avete?
Le nostre lavorazioni sono caratterizzate da una stagionalità alta, legata alla produzione delle conserve dei pomodori, periodo in cui arriviamo a circa 20-25 dipendenti. Durante l’anno, per la lavorazione dei sottoli, abbiamo meno personale. Per poter essere virtuosi dobbiamo da una parte aumentare il fatturato, dall’altra abbassare i costi automatizzando. Soprattutto in prodotti che hanno un valore specifico basso, come i pomodori, è importantissimo stare attenti ai costi di produzione, perché l’incidenza della manodopera sul prodotto finito è altissima. In Italia il costo della manodopera è altissimo, purtroppo è quello che fa la differenza.
Per una lavorazione di tipo artigianale come quella dei sottoli come fate a mantenere alta la qualità?
C’è una tradizione di metodologie su sistemi di conservazione super collaudati che si tramanda con un’esperienza pluridecennale. Le ricette sono quelle ma ogni tanto sperimentiamo qualcosa di nuovo da aggiungere. Negli ultimi anni stiamo sviluppando molto la produzione dei sughi pronti.
In questo andate ad inserirvi in un settore dominato dalle grandi aziende che fanno una produzione di massa. Come pensate di ritagliarvi la vostra quota di mercato?
Siamo abbastanza competitivi e abbiamo diversi vantaggi. Come attrezzature siamo organizzati come gli altri. Ma per noi tutto si gioca sulla qualità: i nostri sughi vengono fatti con il pomodoro prodotto da noi, che non ha conservanti, usiamo solo olio extravergine di oliva, verdure fresche, non ci sono addensanti, coloranti. Chi legge la nostra etichetta la trova semplice, sono gli stessi ingredienti del sugo fatto in casa.
Una produzione che punta alla qualità necessita di materie prime selezionate. Come le scegliete?
L’Abruzzo, per la sua orografia, non è una regione votata alla produzione agricola. Olio e vino sono prodotti ottimi, ma ci sono altre produzioni che stentano a venire bene. Noi ci approvvigioniamo in Abruzzo, Molise e Puglia, in particolare per quanto riguarda i pomodori. Con gli agricoltori che ci vendono il prodotto c’è un rapporto ormai consolidato di sintonia e stima reciproca. La qualità parte dal campo e l’agricoltore che produce per noi sa che deve farlo in una certa maniera. Ovviamente noi gli riconosciamo i suoi meriti e questo fa in modo che il sodalizio vada avanti e dia frutti veramente buoni. Avere dei pomodori di qualità ci permette di non usare conservanti e correttori di acidità, giochiamo solo sui tempi di sterilizzazione.
Nella nuova linea di prodotti di alta fascia state dando molta attenzione al packaging.
Ho il contatto diretto con un grafico, con cui siamo andati a riprendere le origini dell’azienda, il primo marchio con cui era partito mio padre, quando faceva le consegne con l’Ape. Abbiamo ripreso questo stilema da inserire sull’etichetta insieme al marchio Triveri Giovanni.
Nel frattempo è arrivato in ufficio anche Giovanni, fondatore dell’azienda, pronto ad inserirsi nelle spiegazioni.
Giovanni – Il marchio l’aveva fatto un tipografo di Bologna, conosciuto tramite un mio amico che aveva un’industria a Bologna. Sulla prima etichetta, parliamo di 57 anni fa, c’era un uomo che spingeva una carriola con della frutta. Il volto dell’uomo era quello dello stesso tipografo che l’aveva disegnato.
Per questa nuova linea si percepisce che non state lasciando niente al caso, con una massima cura in ogni dettaglio.
Avere un prodotto di alto livello ti toglie dal magma del prodotto di massa. Il pomodoro ci permette di avere una base solida, abbiamo già un giro di vendita di conserve di olio ma allo stesso tempo vogliamo implementare con questa linea in olio extravergine.
Giovanni – La nostra azienda è cresciuta con il passaparola e cresce sempre di più. In più punti vendita siamo presenti e più veniamo conosciuti. E’ tutto lì il meccanismo, non abbiamo fatto chissà cosa per arrivare a fino a qui.
Quante risorse dedicate alla ricerca e sviluppo?
In questo settore la ricerca e sviluppo è quasi assimilabile alla cucina di ogni casa. Si fanno le prove che si potrebbero fare in una cucina, partendo dai test di sapore. Ci facciamo anche guidare dalle richieste dei clienti, raccogliendo le proposte che arrivano, cercando di ampliare sempre la gamma. Il nostro ultimo prodotto è una crema di peperoni da usare sui formaggi a pasta tenera. Con questo prodotto puntiamo all’Alto Adige e la Svizzera.
Quali saranno i prossimi investimenti?
Fino ad oggi abbiamo investito pricnipalmente sui macchinari per la produzione, ma abbiamo anche realizzato i tetti con il fotovoltaico. Abbiamo intenzione di rifare recinzione e piazzale, ci sono già i progetti per i nuovi uffici da spostare all’ingresso dello stabilimento, uno showroom per i prodotti. Guardiamo avanti con i piedi per terra, perchè sono tanti i progetti che vorremmo sviluppare. Lo faremo un passo alla volta.
In che misura informatica e tecnologia trovano applicazione nella vostra azienda?
I campi di applicazione delle nuove tecnologie in un’azienda sono svariati. Si parte dalla gestione della tracciabilità, del magazzino, fino alla comunicazione. Per quanto riguarda la tecnologia all’interno dell’azienda sono convinto che bisogna adottare un sistema consono alla realtà che vivi, la iper-automazione o l’informatizzazione esasperata hanno senso fino a un certo punto. Almeno per il momento la nostra dimensione ci consente di gestire molte cose ancora ad occhio, sarebbe prematuro e anche uno spreco implementare alcuni sistemi informatici. Invece, le tecnologie per la produzione le scandagliamo tutti gli anni, oltre a non trascurare nessun dettaglio, a partire dai contratti di fornitura per luce e gas. Solo sull’acqua, che è in regime di monopolio, non riusciamo ad agire.
Secondo voi qual è la caratteristica vincente che vi porta ad essere presenti ormai da decenni sul mercato e che vi porta a crescere costantemente?
Ciò su cui abbiamo sempre puntato: la qualità. Senza preoccuparsi se questo può avere magari un costo lievemente maggiore. Credo che, a differenza di molti nostri colleghi che sono in Campania, tradizionalmente la patria per le lavorazioni dei pomodori, abbiamo capito prima che fare qualità costa meno che non farla. E questo passa inevitabilmente nel corretto rapporto con il produttore agricolo. Devi trovare i tuoi agricoltori di fiducia, li devi pagare il giusto e soprattutto stimolare a produrre bene per te e alla fine si rivela un risparmio. Quando abbiamo iniziato a fare pomodori abbiamo fatto molta fatica a trovare un produttore che si impegnasse a fare qualità, nonostante fossimo disposti a riconoscerla. Erano tutti diffidenti per come si era mosso il settore in passato. Ora per fortuna abbiamo trovato dei fornitori con cui si possono fare questi discorsi. Ma nel settore del pomodoro c’è stata una caduta vertiginosa, molti produttori, anche grandi, hanno chiuso.
Riuscite a fare sinergia con altre aziende o inserirvi nelle reti di imprese?
Abbiamo provato ad inserirci in qualcosa che non fosse nella nostra zona. Sono 50 anni che vivo la realtà aziendale, in Abruzzo ho visto nascere situazioni solo prendere contributi. Quando mi propongono collaborazioni sono sempre molto scettico. Mi chiedo: quali sono gli obiettivi? Cosa dobbiamo raggiungere? Si inventano obiettivi che prima le singole aziende non avevano per avere dei fondi. Ho cercato delle collaborazioni fuori, ma è difficile che ti facciano entrare, soprattutto al nord. Loro sono veramente organizzati, hanno delle buone reti di collaborazioni tra aziende, si muovono in blocco per dividere i costi. Nella nostra zona le aziende del food, a parte chi tratta vino e olio, non sono tantissime. Per poter fare un’azione in comune con altri ci vogliono dei requisiti di base necessari. Non ci devono essere sovrapposizioni, devono essere aziende complementari. E poi devono avere dimensioni e obiettivi simili. Non puoi mettere insieme, per fare un esempio l’azienda che fa 10 vasetti di miele con quella che deve vendere 10mila marmellate, hanno necessità diverse.
C’è però un bellissimo progetto che ci sta dando molte soddisfazioni, la collaborazione con le Pizzerie Trieste di Pescara. Per ora sono 4 punti vendita a Pescara e Francavilla. Riccardo Ciferni, ultimo erede della famiglia Ciferni, grazie all’arrivo di finanziatori esteri, sta partendo con il suo progetto di franchising nel mondo. I progetti pilota sono pizzerie a Londra, a Madrid e, probabilmente, a Berlino. La caratteristica delle sue pizze è che si basano su ingredienti semplici e sempre quelli: l’olio di Loreto Aprutino, le farine del mulino Bianchi, marchigiano, e i nostri pomodori. Da quando li produciamo ha usato sempre i nostri. Oltre a fornire i pomodori ci potrebbe essere la possibilità di inserire nei suoi locali un piccolo corner dei nostri prodotti. Si fida di noi perché abbiamo un rapporto di lunga data. Questo per me è molto stimolante.
Giovanni – Bisogna essere in grado di poter controllare il lavoro. E’ inutile fare 50, fai 20 e lo fai bene, l’azienda funziona. Nell’arco di tutti questi anni ho visto delle aziende crescere ma alla fine è come un palloncino, se gli dai la misura giusta di aria tiene e vola, se ne metti troppa scoppia. E ne ho viste scoppiare tante! Non serve esagerare perché altrimenti non vivi tranquillo. Nelle aziende familiari il passaggio generazionale è cruciale, perché da una generazione all’altra può essere la differenza tra mezzanotte e mezzogiorno. Magari tu ai figli prepari una cosa mastodontica e poi loro la bruciano nel giro di 10 anni. Se invece dai la misura giusta può essere che vivono tranquilli.
Nella vostra famiglia questo passaggio generazionale ha funzionato. Dove sta la chiave del successo?
Giovanni – Qualche errore lo avevo fatto, perché quando Alessandro era adolescente non l’avevo mai fatto venire in azienda. Quando a 18 anni si è diplomato avrebbe scelto sicuramente di studiare architettura perché era davvero bravo e portato per il disegno, sono certo che oggi sarebbe un buon architetto. Ma io gli proposi di entrare in azienda spiegandogli le mie motivazioni. Se avesse intrapreso la carriera universitaria e poi professionale prima dei 30 anni non avrebbe iniziato a guadagnare. Invece, entrando in un’azienda che aveva già 3 capannoni ed era ben avviata, avrebbe iniziato subito a guadagnare. Io lo so che inizialmente è entrato qui soprattutto per accontentarmi. Ma si è dato da fare, poi la passione arriva lavorando bene e vedendo i risultati, se lavori e non ci sono risultati la passione non arriva mai. Qualche anno fa, ripensando agli anni trascorsi, gli ho detto: “Forse ho sbagliato a farti fare questo lavoro”. Lui mi ha risposto “hai fatto bene, perché il lavoro mi piace”. Mi sono liberato di un peso che mi portavo dentro.
Un ultimo aspetto è quello relazionale. Come tenete i contatti con i vostri clienti?
Le aziende come la nostra devono mettere necessariamente al primo posto i rapporti interpersonali. Ci sono clienti che non ho mai visto, con cui mi sento per telefono o per email, ma con molti si è creato il rapporto umano. Lavorare quando non c’è sintonia non porta a niente. Col tempo abbiamo sempre preferito privilegiare i rapporti, che sono poi quelli che conservi a lungo termine. E non sono solo scelte dettate dal cuore, perchè a lungo andare crei una clientela stratificata che sai che non ti abbandoneraà mai.