Alessia Polidoro, 31 anni, lavora nel campo dell’azione umanitaria e cooperazione allo sviluppo ed è la coordinatrice di un progetto di protezione e sostegno delle ragazze di strada di Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo. “So che a molti questi termini non dicono nulla – spiega Alessia – ma ciò di cui mi occupo è la gestione delle emergenze (disastri naturali, guerre eccetera) o di progetti a più lunga durata che comunemente vengono chiamati di sviluppo. In particolare, e per il momento, visto che questo è uno dei settori che richiede la più ampia flessibilità e precarietà, lavoro per un’organizzazione non governativa e non profit inglese: War Child UK che si occupa di protezione dell’infanzia”.
Da quanto tempo sei lì?
Sono tre anni, ormai, che mi sono trasferita a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica (ma solo di nome) del Congo, ma il mio vagabondare ha radici lontane. Dopo aver terminato gli studi presso il Liceo Scientifico di Vasto, mi sono iscritta all’università di Bologna, facoltà scienze politiche, indirizzo Relazioni Internazionali. Terminato il corso triennale, ho deciso di trasferirmi a Roma per proseguire gli studi e ottenere quella che, nel gergo accademico, dovrebbe chiamarsi una laurea magistrale (o almeno credo) in Relazioni Internazionali.
Propri negli anni universitari è iniziato il tuo peregrinare.
Inizialmente, attraverso il progetto Erasmus, ho avuto la possibilità di studiare un anno a Parigi e in seguito, attraverso il progetto MAE/CRUI, ho potuto avere un primo contatto con il mondo del lavoro, in particolare con l’ufficio di cooperazione allo sviluppo dell’Ambasciata Italiana in Thailandia. Prima e dopo il tirocinio in Thailandia ho potuto finalizzare la mia tesi di laurea recandomi in visita in Cambogia e Bosnia Erzegovina. Nonostante le piccole esperienze all’estero e i corsi di formazione accumulati durante gli anni universitari, la ricerca del lavoro e stata particolarmente dura.
Perché?
Purtroppo la cultura italiana ci obbliga ad essere sfruttati e dipendenti fino ai 30 anni, abbiamo un sistema universitario retrogrado e classista, la cosiddetta classe dei “baroni” che ci obbliga a studiare fino ai 26 anni minimo, contro una media europea dei 22/23 anni. Il che significa che sul mercato del lavoro estero siamo sensibilmente svantaggiati contro i nostri coetanei inglesi, francesi, tedeschi. Per non parlare poi del deficit delle lingue che in Italia è particolarmente acuto. Una volta terminati gli studi siamo obbligati a passare di tirocinio in tirocinio fino a quando, o non si ha la fortuna di avere l’offerta che si stava cercando, o si abbandona il proprio sogno, si smette di essere, come saggiamente qualcuno ha affermato di recente, troppo “choosy” e ci si getta sul primo lavoro che ci faccia sbarcare il lunario e ci permetta di diventare degli adulti autonomi, indipendenti e responsabili.
Ed è quello che ti è accaduto, ma poi è arrivata la svolta.
Non so quanto gli studi fatti mi abbiano aiutato ad avere il lavoro che ho, ma di certo mi hanno facilitato. Dopo gli studi sono passata di stage a stage, dalla Turchia con il progetto Leonardo, alla Germania con l’Unesco fino al Congo/Kinshasa con il Cesvi, un’Ong di Bergamo. Arrivata a Kinshasa con un contratto da stagista di 6 mesi, ero decisa, o avrei trovato un lavoro o sarei tornata a Vasto a fare altro, anche se dopo tutti i sacrifici fatti e che ho fatto sostenere alla mia famiglia, sarebbe stato un immenso fallimento. Il fatto di non demordere mi ha ripagata, dopo soli 3 mesi Cesvi mi ha assunto, anche se con un contratto junior (per dirla alla politically correct), ma finalmente ho avuto il mio primo contratto e ho potuto dimostrare di che stoffa sono fatti i vastesi. Da lì la mia carriera ha preso il volo e oggi lavoro con un’organizzazione inglese, ampiamente riconosciuta nel settore, che mi soddisfa sufficientemente da non farmi rimpiangere le scelte fatte (o almeno per il 50%).
Com’è la vita di tutti i giorni nella Repubblica Democratica del Congo?
Bella domanda! Se sapessi darti una risposta avrei risolto tanti degli enigmi che mi arrovellano il cervello ogni giorno da quando ho messo i piedi qui. In linea generale mi trovo bene e faccio una vita che mai mi potrei permettere in Italia o altrove. Noi “umanitari” siamo una classe largamente avvantaggiata rispetto alla popolazione che pretendiamo di aiutare. Viviamo in case che hanno elettricità e acqua corrente e per di più calda per l’80% del tempo, abbiamo dei maggiordomi, dei guardiani, degli autisti, non paghiamo l’affitto o la benzina, insomma in nessun modo mi permetterei di dire che le condizioni di vita sono difficili. Non lo sono affatto.
Quali sono gli ostacoli che incontri quotidianamente?
E’ difficile non poter abbassare mai la guardia perchè sei una facile e succulente preda per qualcuno che, come in questa città di 10.000 milioni di abitanti (di cui 9 fanno la fame), non sa nemmeno se arriverà a domani. L’instabilità sociale e politica ti porta a essere il bersaglio preferito e più facile, nonostante tu sia lì per cercare di migliorare le condizioni di vita della popolazione. Quando sono seduta nel mio giardino e alzo lo sguardo sono circondata da filo spinato, inoltre non posso camminare tranquillamente per strada senza che ogni 10 centimetri qualcuno mi domandi dei soldi o cerchi di sfilarmeli dal portafogli (la seconda solo dopo il tramonto). Non ci sono cinema, la corruzione è ad un livello inimmaginabile tanto che la miseria economica si è trasformata in miseria umana, quindi il livello di stress a cui si e sottoposti dura 24 ore su 24. E’ impossibile avere degli amici che non siano stranieri (europei), visto che il divario culturale ed economico è talmente enorme che uno scambio sincero e non influenzato da un rapporto di forza è una perla rara. PErò se non ci fosse tutto questo la mia ragion d’essere verrebbe meno, per cui si sono felice di essere a Kinshasa, ma anche stanca perchè è così che deve essere.
E quali sono le difficoltà nel tuo lavoro?
Il principale problema, oltre che si lavora continuamente sotto stress, è che le capacità dello staff locale sono molto ridotte a causa di un sistema educativo inadeguato, che la corruzione pervade ogni aspetto della vita quotidiana, che le difficoltà logistiche (elettricità, acqua, internet) non facilitano i compiti, che malgrado i buoni sentimenti che ci spingono a fare questo lavoro, ad esempio credere che tutti dovrebbero avere le stesse possibilità e diritti, spesso si viene assimilati con il personale militare o diplomatico e si diventa un facile bersaglio, dalla piccola criminalità ai rapimenti, estorsioni, rivendicazioni, attentati. Insomma, non ci si annoia.
Gli amici e i familiari sono preoccupati?
Bisognerebbe chiedere a loro. Credo che possano essere divisi in due scuole di pensiero: quelli che pensano che sono una pazza suora missionaria e che dicono: “ma chi te l’ha fatto fare”, e quelli che malgrado non capiscano cosa ci spinge ad abbandonare il tetto famigliare in fondo in fondo vorrebbero avere lo stesso coraggio e avventurarsi su dei sentieri sconosciuti. E’ un’esperienza che consiglio a chi non scappa dai propri problemi, o radici, quelli tanto ti accompagnano ovunque tu sia, anzi raddoppiano proporzionalmente alla distanza percorsa.
Torneresti in Italia?
L’Italia, nonostante stia vivendo una vera e propria fase di medioevo, non è un paese in via di sviluppo o in conflitto, per cui le possibilità che possa tornare in patria sono scarse. E poi a dirla tutta, non ci penso proprio, ho scelto questo lavoro perchè amo viaggiare, conoscere, confrontarmi con problemi e culture diverse dalla mia, sebbene a volte il confronto diventa uno scontro. Penso che la vita sia troppo breve e il mondo troppo grande e bello per potermi fermare alla conoscenza del paese natio. Ci sono ancora tante di quelle cose che vorrei vedere, fare, annusare, che la possibilità di tornare in Italia e fare un lavoro simile non mi attrae per nulla. Ho sempre avuto un amore e odio per Vasto, troppo piccola per poterci vivere, troppo bella per non pensare di tornare. Non so, mai dire mai nella vita.
Quante volte torni nella tua città?
Almeno una volta l’anno, anche se ultimamente i miei amici hanno deciso di sposarsi e mettere su famiglia ad un ritmo di tre matrimoni l’anno, per cui cerco nella misura del possibile di essere presente e mantenere dei legami che durano dall’infanzia. Mi mancano gli amici, quelli veri, quelli di sempre, quelli che malgrado il tempo scorra e come se non li si avesse mai abbandonati. Mi mancano i miei genitori, mia sorella. Mi manca la cucina di mia mamma, la più buona del mondo, anche se mio padre prepara dei brodetti da leccarsi i baffi. Mi manca il mare, tremendamente. Mi manca San Nicola per fare una passeggiata e fermarsi a fumare un’ultima sigaretta prima di rientrare a casa e avere lunghe conversazioni con la persona che più amo al mondo. Mi manca la pizza della Pergola, tappa fissa ad ogni mio rientro. Mi mancano le mie radici, i suoni, i profumi, quella leggerezza dell’animo che ti fa sentire che finalmente sei a casa.
Anche se bisognerebbe aprire una grande parentesi, purtroppo noi espatriati viviamo il dilemma di avere un piede in due staffe o due piedi in una staffa. Da un lato ci mancano casa, la patria, le radici, ma dall’altra quando torniamo tutto è cambiato, le vite degli altri hanno proseguito il loro cammino, per cui siamo inevitabilmente chiamati a vivere un sentimento di estraniazione, siamo a casa ma non riusciamo più a sentirla come tale, siamo all’estero la sentiamo come casa ma non vogliamo viverla come tale e la consideriamo solo come una base di passaggio. Non so è complicato da spiegare, difficile da vivere, si è sempre nel mood pesci fuor d’acqua, un po’ degli apolidi che appartengono a qualsiasi paese e a nessuno allo stesso tempo, insomma come dire l’importante è saperlo, accettarlo e fare di difficoltà virtù.