L’ex magistrato antimafia Giuseppe Ayala, stretto collaboratore di Falcone e Borsellino, è stato invitato dal laboratorio politico-culturale San Salvo Democratica, per presentare il suo libro “Troppe coincidenze”. Un appuntamento che ha visto la presenza del direttore del quotidiano Il Centro, Mauro Tedeschini, e di molti cittadini. Lo abbiamo incontrato prima dell’incontro alla Porta della Terra.
Troppe coincidenze. Cosa l’ha portata a scrivere questo libro, perchè ha sentito il bisogno di raccontare tutto questo?
A un certo punto della mia vita, quando ho finito l’esperienza parlamentare, che è stata anche abbastanza lunga, mi sono reso conto con serenità di aver avuto, molto al di là dei miei meriti, a disposizione degli osservatori privilegiati. Negli anni ’80 la Procura della Repubblica di Palermo era un osservatorio privilegiato. con tutto quello che lì è stato fatto, con gran merito dei giudici istruttori e in parte anche di chi come me era pubblico ministero. I risultati sono straordinari: noi abbiamo scoperto la mafia. Fino a poco tempo prima non se ne sapeva niente, qualcuno addirittura si chiedeva “ma siamo sicuri che esiste la mafia?”.
Poi, neanche a farlo apposta, nel ’92 accettai questa offerta inaspettatissima e sono diventato parlamentare. E indubbiamente mi sono ritrovato in un altro osservatorio privilegiato, in coincidenza con eventi che hanno profondamente segnato la storia del nostro Paese. Ci furono in rapida successione il 23 maggio1992, il 19 luglio, poi Tangentopoli e la dissoluzione di un sistema di potere che aveva governato l’Italia per 50 anni, le stragi del ’93 e poi nel 1994 la nascita di quella che viene comunemente chiamata la Seconda Repubblica.
E allora io ho scritto un primo libro che ricostruisce la storia per come realmente si è svolta, nei 10 anni nel Palazzo di Giustizia di Palermo, con una finalità divulgativa. Ho pensato soprattutto ai giovani, perchè credo sia molto utile che la conoscano. Del resto già i romani ci insegnavano che la storia è maestra di vita e, secondo me, avevano ragione. I giovani hanno diritto di conoscerla, ma non è ancora storia, quindi nei libri a scuola non c’è, non è più cronaca e non la troveranno. E’ una conoscenza che è quasi in un limbo. Io l’ho presa da quel limbo e l’ho messa nero su bianco e l’ho offerta soprattutto pensando ai giovani. Questo libro ha avuto un riscontro editoriale importante, vuol dire che ho fatto bene. A questo punto mi sono detto: “perchè non scrivere un altro libro sempre con la stessa finalità divulgativa su questa fase successiva?”.
Il primo libro prende il titolo da una frase di Borsellino, “Chi ha paura muore ogni giorno”. Lei ha avuto paura nella sua vita?
Sì. Non l’ho mai negato, mai nascosto. Io so cos’è la paura. Il problema del rapporto tra l’uomo e la paura è nel rischio di cedere alla paura, non nel provarla. Perchè in situazioni che la giustificano è una reazione umana. Se tu hai paura della tua ombra è un problema da psicanalisi. Ma nella vita puoi trovarti ad avere situazioni che giustificano questo sentimento. Ed allora il problema è non farsi condizionare, non avere il timore di continuare a fare quello che hai fatto. Questo credo sia il nostro caso, perchè posso dire che anche Falcone e Borsellino, così come gli altri colleghi, la paura l’hanno conosciuta. Noi siamo stati aiutati molto anche dall’essere squadra, da una condivisione. Siamo stati accusati di tutto, ma nessuno ci può accusare di avere ceduto alla paura, siamo andati avanti. Poi purtroppo c’è chi ha pagato con la vita.
Come ha detto vi hanno accusati di tutto. Nella fase del vostro importante lavoro, in particolare legato al maxiprocesso, c’è stato chi più volte ha provato a contrastarvi. Qual è stato il momento più difficile?
La prima fase è quella che portò alla nascita del maxiprocesso, nel periodo 1982-86. Lì fummo sostenuti da alcune istituzioni dello Stato. Penso ai ministri della Giustizia e dell’Interno, Rognoni e Scalfaro. Così si mise in piede quello che è un processo storico. Per la prima volta nella storia del nostro Paese furono portati a giudizio, davanti alla corte d’assise di Palermo, tutti i vertici di Cosa Nostra. I miei colleghi giudici istruttori non ne sbagliarono nemmeno una. In tutto erano 475. Ci furono 19 ergastoli e agli altri furono distribuiti 2665 anni di carcere. Io che facevo il pubblico ministero l’ho vissuto come un grande successo dello Stato. Non pensavamo che all’indomani ci avrebbero nominato cavalieri, commendatori o grand’ufficiali. Pensavamo che lo Stato ci avrebbe ancora di più sostenuto. Avevamo sbagliato.
Questo nel libro è tutto ricostruito. Dal potere centrale, da quel momento in poi, iniziò un’azione certamente non favorevole a far crescere il nostro lavoro. In particolare Giovanni Falcone fu l’obiettivo fondamentale anche di una campagna di delegittimazione. Paolo Borsellino di meno, perchè nel 1986 era stato nominato Procuratore a Marsala. Se fosse rimasto a Palermo sarebbe stato lo stesso. Anche io fui oggetto di sgradevolezze perchè ero notoriamente il collega di fiducia dei giudici istruttori di Palermo. Lo ricorda Nino Caponnetto, nel suo libro del novembre 1992, in cui scrive parlando di me: “Con Ayala ho sempre avuto e conservo un rapporto molto affettuoso”. E aggiunge: “E’ uno dei pochissimi magistrati, forse l’unico della Procura, sul cui conto non ho mai avuto riserve. Lo stimo molto”. Ecco, il legame con Falcone, che poi è divenuto di amicizia, quasi di convivenza, complessivamente non mi ha giovato in questo senso. Quindi complessivamente, valutando quel periodo, c’è la dimostrazione di come pezzi dello Stato non gradivano una lotta alla mafia fatta fino in fondo. Questo conferma ciò che tutti sappiamo, cioè che una delle peculiarità di Cosa Nostra è la sua capacità di interlocuzione con pezzi del potere. Non con tutta la politica, stiamo attenti, ma con pezzi della politica. Noi l’abbiamo purtroppo vissuto sulla nostra pelle.
Si fa un gran parlare dei magistrati che decidono di impegnarsi in politica candidandosi alle elezioni. Lei che ha vissuto questo passaggio come lo lo valuta?
Non ritengo di avere titolo per dare pagelle a nessuno, e meno che mai ai miei colleghi magistrati, per cui ho profondo rispetto. Nel mio caso particolare ero molto titubante sull’accettare o meno la candidatura. Poi, come tutti sanno, fu Falcone che mi convinse. Ma ero fuori ruolo dalla magistratura, visto che dal 91 ero consulente della commissione bicamerale antimafia. Io non mi sono tolto la toga per fare il parlamentare. Questo non vuol dire che posso muovere critiche a colleghi che si sono tolti la toga per fare i parlamentari. Ogni vicenda è una vicenda personale, ciascuno di noi si assume la responsabilità delle sue scelte. Mi rendo conto che la domanda è legittima perchè il nostro è un mestiere particolare, quindi può aleggiare il sospetto che tu abbia fatto il magistrato in maniera tale da avere una visibilità che poi può facilitare il passaggio alla politica. Ma io rispetto le decisioni di tutti.
Ha detto che i suoi libri sono pensati per i giovani. A 20 anni dalle stragi che messaggio trasmette ai giovani che non hanno vissuto quel periodo ma vivono una società che da quei tragici avvenimenti è stata cambiata?
Io penso che l’eredità più importante che mi hanno lasciato Falcone e Borsellino è che grazie a loro, oltre che a Caponnetto e agli altri giudici, si è arrivati a scoprire cosa è la mafia. La sentenza del maxiprocesso contiene tutto ciò che c’è da sapere sulla mafia, non c’è altro da aggiungere. Allora su questo piano piano ha camminato una presa di consapevolezza e di coscienza della gravità del fenomeno che prima era inimmaginabile. E con fatica tutto questo ha camminato. Vedo che oggi molti giovani sono coinvolti, per esempio penso a Libera, di don Ciotti. E’ cresciuta una militanza, realmente antimafiosa, e credo sia un portato straordinario di quel lavoro. Poi è chiaro che il percorso è lungo e difficile, non lo nascondo. Pensare che i giovani di oggi, seppure con incertezze, con qualche confusione, hanno questa consapevolezza e sanno quanto questo problema pesi sulla vita democratica ed economica del Paese, ci fa sperare che piano piano la parte più sana della società civile riuscirà quantomeno a confinare la mafia ad un ruolo più ristretto. Siamo nelle mani dei giovani.
Foto – Giuseppe Ayala a San Salvo
Giuseppe Ayala a San Salvo