Non seppi mai quanto tempo avevo trascorso nell’incoscienza e nel delirio, dal quale ancora emergono alla mia mente dettagli sfocati, odori e suoni che non sono finora mai riuscito a collegare in un unico filo comune. In ogni caso, a giudicare dalla peluria ispida che avevo sul viso, diversi giorni dovevano essere trascorsi quando mi risvegliai: ero disteso ed immobilizzato su un giaciglio di panno ruvido bianco, proprio dal tipo usato negli ospedali, e forti fasce di stoffa grezza bloccavano il mio corpo in una rigida posizione supina, dalla quale potevo muovere solo la testa e le gambe.
Provai inutilmente a dare un paio di strattoni per liberarmi, ma chi aveva curato quella imbracatura non era certo un dilettante.
“Veda di calmarsi, prego: lei non è ancora in grado di muoversi e deve solo ringraziare la sua buona sorte se sarà ancora in grado di farlo da solo, in futuro”
La voce, certamente maschile, proveniva da dietro al mio letto, dalla sinistra, al di là di quanto potessi guardare inarcando al massimo testa ed occhi; giungeva attutita, quasi camuffata, e mi ricordo che pensai subito che c’era qualcosa di indefinibilmente strano nella origine da cui proveniva. Al momento confesso che non capii, forse perché la sensazione di essere bloccato inesorabilmente sul letto era opprimente più di ogni altra cosa; poi la voce si fece di colpo più vicina e voltai di scatto la testa verso il punto da cui proveniva, per guardare in faccia il mio misterioso interlocutore.
Rimasi letteralmente a bocca aperta!
Pensai, sulle prime, di essere vittima di una allucinazione, forse indotta da farmaci che dovevo avere assunto durante la mia fase di incoscienza, o di un vaneggiamento, residuo della disavventura che mi aveva fatto finire su quel letto; fatto stava che di fronte ai miei occhi, laddove mi sarei aspettato di vedere un volto, magari moresco o camita o forse albino, c’erano due piedi ben dritti, rinchiusi in calzari di lattice spesso che sembravano più guanti da chirurgo che veri e propri pedalini!
Deglutii per scuotermi dallo sbigottimento e strizzai gli occhi per essere certo di ciò che vedevo: erano realmente due piedi, quelli che armeggiavano con una certa disinvoltura attorno a boccette fragilissime di liquidi colorati, siringhe, termometri e stetoscopi con l’abilità che mani comuni non avrebbero forse posseduto?
Che diavolo stava succedendo?
“Bene, bene” tornò a parlare la voce che – era ormai chiaro – proveniva da un punto più in basso del mio letto “; “si è svegliato, finalmente! Non abbia fretta: le sue ferite erano tante e deve ritenersi fortunato se l’abbiamo trovata in tempo! Riesce a vedere bene? Avverte difficoltà nel mettere a fuoco le immagini?”
Concentrare la mia attenzione su aspetti razionali ebbe un effetto benefico su di me; pensai che era saggio verificare quanto la voce mi chiedeva e cercai di notare se la vista presentasse anomalie. Ciononostante, non riuscii a spostare lo sguardo dai piedi che spuntavano lì, vicino al letto.
“S-sì… v-vedo bene, dire…” balbettai, con la lingua improvvisamente arida e la bocca impastata.
“Molto bene: avverto subito il dottor Branagh. Cerchi di non sforzarsi troppo, nel frattempo”.
I piedi presero un taccuino da una mensola e si scostarono dalla sponda del mio letto, dirigendosi verso una porta che fino ad allora non avevo affatto notato. A mano a mano che si allontanavano, la prospettiva scopriva ai miei occhi altri dettagli di quell’essere che mi aveva parlato: prima le gambe, fasciate in calzoni stretti e bianchi; poi il busto, coperto da una chemise candida, senza tasche, con il collo a V; le braccia, forti e senza peluria, lasciate scoperte dalle maniche della divisa; infine la testa, inarcata verso l’alto in maniera innaturale per guardare avanti a sé.
Insomma, era un infermiere, certamente, ma che – Dio me ne è testimone! – camminava sulle mani, anziché sulle gambe come qualsiasi altro essere umano sulla faccia della Terra!!!
Che razza di follia era mai quella?!?
Per quale inconcepibile ragione un essere umano doveva muoversi sulle sue mani, come uno strambo saltimbanco, invece che sulle gambe, gli arti che Dio gli aveva creato appositamente perché si spostasse come nessun altro mammifero era in grado di fare?
Certo, un motivo doveva esserci: forse qualche ignota procedura di sicurezza legata all’ospedale e alle terapie che praticavano ai pazienti lì; probabilmente, io stesso ero tuttora sottoposto a tali trattamenti, visto anche quanto ricordato dall’infermiere a proposito delle gravi ferite che avevo subito, e questo obbligava il personale di quell’ospedale a spostarsi in quella postura innaturale.
Riflettevo su questi aspetti, cercando disperatamente di individuare una forma di razionalità in ciò in cui ero capitato, quando i piedi del mio infermiere tornarono da me, accompagnati da altri due piedi, più alti e coperti da pedalini immacolati che fasciavano ogni singolo dito a mo’ di guanti.
“Bene, bene, bene” disse una nuova voce, evidentemente dell’uomo con i piedi guantati; “sono il dott. Branagh: l’infermiere mi ha riferito che si sente meglio, giusto?”
Annuii, mentre osservavo i due piedi del medico che afferravano le boccette colorate sul mio comodino, portandole verso il basso, immaginai all’altezza degli occhi.
“Non riesce a parlare, per caso?” mi chiese il dott. Branagh.
“No… cioè, sì… voglio dire: sto meglio, credo…”; capii tardi che, per quanto abili, quei piedi non possedevano occhi e dovevo per forza usare la voce per comunicare con i due, le cui teste erano più in basso, rispetto al mio letto.
“Molto bene. Infermiere, visitiamo il paziente”
“Certo, dottore”
A quel punto, l’infermiere si mosse verso un altro angolo della stanza e i suoi piedi afferrarono una specie di scaletta a gradoni larghi, avvicinandola al mio letto. Si fecero, quindi, da parte e il dott. Branagh salì i gradini sulle braccia e a testa all’ingiù, esattamente come avevo visto camminare prima l’infermiere, fino a portare la sua testa all’altezza della mia.
Poteva avere circa trent’anni, biondo e riccio, perfettamente rasato. Era certamente un bell’uomo, notai.
Mi sorrise ed iniziò a scrutarmi, mentre i suoi piedi scostavano le coperte e mostravano le numerose fasciature che avvolgevano come un bozzolo il mio torace e le mie braccia, immobilizzandoli completamente.
“Ah, le migliori bendature che la scienza medica abbia mai realizzato dai tempi di Ippocrate!” sentenziò il dott. Branagh, accompagnando le sue parole con un teatrale gesto delle gambe, divaricate in posa plastica come quelle di un circense.
Nel frattempo, anche l’infermiere era salito su una scaletta posta all’altro lato del mio letto, ed i suoi piedi aiutavano quelli del dottore nella complessa operazione di allentare quelle gigantesche fasciature.
Ero fermo su un letto di ospedale, appena riavutomi da una situazione disperata (stando a quanto mi avevano appena raccontato), e guardavo quattro piedi armeggiare attorno alle mie ferite per visitarle: per un istante, lo ammetto, pensai di essere già defunto e di essere finito in un qualche girone in cui avevo appena iniziato ad espiare i peccati di tutta la mia vita!
A mano a mano che le bende si allentavano, provai l’impulso a muovere alcune parti del mio corpo ma venni frenato subito dall’infermiere: “La prego, non si muova! Le fratture non si sono ancora ricomposte del tutto!”.
‘Fratture?’, pensai.
Intervenne il medico: “Ricorda il suo nome? Riesce a ricordare come si chiama?”.
‘Che domande: certo che sì!’, fui tentato di rispondere; ma subito questo pensiero si smorzò, suscitando una fitta di terrore: per quanto mi sforzassi, per quanto cercassi in ogni anfratto della mia mente, il mio nome non veniva fuori. Ero, paradossalmente, certo di conoscerlo e di averne avuto uno: era il mio nome, perdiana! Il nome datomi da mio padre! Pur tuttavia, non lo ricordavo più.
“È assolutamente normale, dopo lo shock che ha subìto”, disse subito il dottore, accompagnando le parole con uno dei suoi migliori sorrisi; “qui noi siamo esperti di casi come il suo e, devo riconoscere, anche piuttosto bravi nel risolverli, dato che i nostri pazienti sono sempre tornati rapidamente a casa sulle proprie braccia, in grandissima forma!”
Dall’altro lato l’infermiere annuiva con enfasi ad ogni parola del dottore.
“Perché sulle braccia?” chiesi d’impulso.
“Come, prego?”
“Perché camminate sulle braccia e non sulle gambe?” insistetti.
Il medico e l’infermiere si guardarono negli occhi, lì a due palmi dal mio viso.
“Lei cammina sulle gambe, invece?” mi chiese il dott. Branagh incuriosito.
“Naturalmente! Forse non ricorderò il mio nome, ma sono certo di ricordare che, dacché lasciai la culla, io abbia sempre camminato eretto, sulle mie gambe!”
“Beh, è ora che si aggiorni, allora” fu la risposta sbrigativa del medico, che subito spostò la sua attenzione sul mio torace, ormai denudato dalle fasciature e pieno di ecchimosi e di cicatrici.
“Infermiere” ordinò; “si dia inizio alla medicazione!”.
Col passare dei giorni le mie condizioni migliorarono rapidamente, onestamente non saprei quanto grazie alla mia tempra e quanto grazie alle cure che mi venivano praticate, limitate ad abbondanti bendature strette e a pochi unguenti.
Nei primi tempi, il dott. Branagh tornava a visitarmi ogni giorno, sempre accompagnato da uno o due infermieri; poi, a mano a mano che progredivo nel mio recupero, le sue visite si fecero sempre più rade, fino a che non lo vidi più per settimane intere.
Appena fui in grado di alzarmi, mossi i miei primi passi verso la finestra, curioso di capire in quale parte del mondo fossi finito. Con una certa ansia mista a curiosità, mi accostai lentamente ai vetri spessi fino ad appannarli con il mio respiro e rivolsi lo sguardo per la prima volta fuori dalla stanzetta che era diventato il mio mondo negli ultimi mesi; guardai e ciò che vidi riuscì a sorprendermi più di quanto avrei potuto immaginare.
Fuori dall’ospedale c’erano case del tutto simili a quelle che avrei potuto vedere in qualsiasi città europea, separate da strade ampie percorse da carrozze e da passanti, gentiluomini e gentildonne, facchini ed operai, tutti rigorosamente ritti sulle braccia, proprio come il dott. Branagh e gli infermieri che si erano alternati al mio capezzale.
Non c’era nessuno, a quanto vidi, che camminasse sulle gambe, ma tutti – e intendo dire realmente tutti quanti – passeggiavano, chiacchieravano, attraversavano la strada, portavano pacchi, vendevano giornali e frequentavano bar e ristoranti muovendosi sulle proprie braccia, a testa all’ingiù, inarcando il collo in avanti e bilanciando con ottima perizia le gambe e i piedi; questi ultimi, fasciati in eleganti pedalini di pizzo nelle signore, bardati di stoffa spessa nei facchini, guantati di cachemire nei gentiluomini, venivano usati da tutti come vere e proprie mani, afferrando, spostando, sorreggendo ed accompagnando i gesti più comuni.
Nei giorni seguenti, ebbi modo di osservare molto questo mondo in cui le persone avevano una andatura all’incontrario e non finii mai di sorprendermi della naturalezza con cui tutte quelle persone si muovevano, agivano e vivevano in una posa che fino a qualche mese prima avrei definito totalmente innaturale.
Giorno dopo giorno, la mia curiosità di uscire a vivere quel mondo così strambo cresceva di pari passo con il vigore della ritrovata salute e, con essa, i ricordi prima perduti tornarono a fluire nella mia memoria.
Fu un decorso particolarmente lungo e spesso anche doloroso.
Quando, alla fine, venni dimesso, ricordavo perfettamente il mio nome, chi fossi ed ogni dettaglio della mia vita; in particolare, ricordavo molto bene le circostanze che mi avevano portato a naufragare in quel Paese sbalorditivo di cui ho a lungo narrato finora: un luogo dove era considerato assolutamente normale camminare a testa all’ingiù.
Leggi qui la puntata precedente | Appuntamento alla prossima puntata con “Lo strabiliante viaggio di Anthony B. Elliott”].
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Elio Bucciantonio è nato a Chieti nel giugno 1967. Ingegnere gestionale, attualmente consulente, vive in Abruzzo, a San Salvo (CH), dove ha scritto la raccolta poetica “Settembre” (Ed. Cannarsa, 1993) e il romanzo “Il mondo perfetto” (Ed. Cannarsa, 2008).