Nelle tante notti insonni che avevo trascorso a preparare il mio viaggio, tracciando rotte, prevedendo i consumi di vettovaglie, pianificando le soste e valutando pericoli e problemi che avrei potuto incontrare, avevo naturalmente anche messo in conto l’eventualità di affrontare noie con la legge.
Immaginavo, ad esempio, di atterrare in un luogo sconosciuto e, inconsapevolmente, violare leggi che non conoscevo, ritrovandomi a dare spiegazioni ad ufficiali di polizia, forse persino in una lingua a me ignota.
Avevo anche immaginato di violare lo spazio aereo di una qualche zona militarizzata, magari spostato da correnti d’aria violente ed improvvise, oppure di dover acquistare materiali o cibarie a me necessari ma vietati nel luogo in cui ne avrei avuto bisogno.
Erano chiaramente tutte ipotesi remote, ma certo da non trascurare, poiché il loro concretizzarsi avrebbe comportato rischi non indifferenti per me e per l’intera mia impresa.
Come spesso accade, tuttavia, il Destino trova modo di sorprenderci: nella lista delle possibili beghe che avrei potuto affrontare, certamente non avevo considerato (né avrei mai potuto farlo!) di venire arrestato per avere attraversato una piazza a piedi!
Ora, è certo ben noto che ogni arrestato professi la sua incrollabile innocenza, talvolta anche di fronte a fatti di chiarezza eclatante che, al contrario, ne dimostrino l’inappellabile colpevolezza; a volte, si ha anzi l’impressione che più il rango dell’imputato sia elevato e maggiore sia la sua insistenza nel proclamarsi innocente e addirittura vittima di un qualche machiavellico complotto.
In questo, spesso, la lezione degli umili è schiacciante: dopo qualche umana resistenza, messi di fronte alle proprie responsabilità, si limitano a supplicare la pietà del giudizio, laddove le persone di rango tendono a mantenere un atteggiamento di sprezzante distacco.
Nel mio caso, tuttavia, si trattò proprio di una accusa inequivocabilmente infondata, direi quasi puerile nella sua capziosità.
Stavo camminando nei pressi dell’ospedale, guardando per la prima volta dal vivo quelle strade e quelle persone che fino ad allora avevo osservato solo da lontano, cercando di placare con la fantasia le urgenze tremende della mia curiosità. La realtà che stavo guardando da vicino, tuttavia, superava di gran lunga qualsiasi mia aspettativa!
Era un mondo meravigliosamente colorato e vivace, pieno di voci e di musica; un luogo strambo nei modi e nelle movenze dei suoi abitanti, per i quali, forse, a ben riflettere, dovevo sembrare ancor più strambo io stesso.
Era un po’ come accadeva al Dr. Lemuel Gulliver, il protagonista del romanzo di quello scrittore irlandese: egli riteneva “pigmei” i lillipuziani e “giganti” gli abitanti di Brobdingnan, senza rendersi conto che, in entrambi i casi, era il concetto di “normalità” che cambiava ed era lui inevitabilmente il personaggio fuori misura.
Di tutto ciò, al momento, non mi rendevo conto, preso dal vortice di novità e dall’inebriante desiderio di vedere e conoscere quel posto sbalorditivo; guardavo ogni abitante con le curiosità di un bambino, più che con il desiderio di conoscenza di un uomo razionale, e ciascuno di loro ricambiava con stupore i miei sguardi, che tuttavia non notavo, preso come ero dalle loro andature così atipiche, di cui nessun altro scienziato o esploratore aveva mai – a mia conoscenza – ancora riferito fino a quel momento.
Ero davvero in presenza di una scoperta tanto incredibile?
Mossi qualche passo, tra due file di curiosi che mi osservavano, lasciando dietro di me scie di commenti e bisbigli, e venni attratto da un capannello di persone che sostavano a semicerchio in silenzio e da cui emergevano poche voci chiare e distinte.
Non appena fui lì dappresso, mi resi conto del motivo di quell’affollamento: c’erano artisti di strada che recitavano una qualche commedia a me ignota, ma di grande popolarità, a giudicare dalla folla che stava seguendo la recitazione.
Cercai di individuare quantomeno l’autore di quella pièce, ma la mia attenzione venne subito catturata da altre voci, simili a queste, che provenivano da un analogo capannello di gente alle mie spalle. Corsi a vedere, spinto da una irrefrenabile curiosità ed anche lì trovai attori che stavano inscenando un’altra rappresentazione, che solo dopo qualche minuto capii essere solo un atto diverso di quella di prima.
Alzai, allora, lo sguardo attorno a me e solo allora notai che mi trovavo in una grandiosa piazza ad emiciclo, nella quale decine di capannelli di persone si raccoglievano a seguire le varie recitazioni, che erano tutte parti della stessa commedia, replicata all’infinito da innumerevoli attori contemporaneamente, anche se in fasi diverse dello svolgimento della trama. Ero, tuttavia, assolutamente certo che si trattasse della stessa, identica pièce: ciò era fuori di ogni dubbio.
Quaggiù un attore vestito da mercante discuteva di finanza e di mercati con un altro attore che impersonava un severo cardinale; di là due un attore recitava il ruolo di un grasso politico, cui il costumista aveva applicato un addome incredibile sotto gli abiti di scena: egli litigava aspramente con il personaggio del cardinale a proposito di terreni di cui ciascuno reclamava la proprietà; ancora oltre, gli stessi identici personaggi – il politico grasso e il cardinale severo – passeggiavano a braccetto come vecchi amici, discutendo di certe nuove leggi che loro stessi volevano a tutti i costi venissero varate; all’altro estremo della piazza, due dame (Dio mi perdoni!) esibivano un baccanale osceno con uomini diversi, nella totale indifferenza degli astanti, che seguivano anche questa parte della rappresentazione con lo stesso aplomb di ogni altra.
Fu qui che non riuscii a trattenermi e, alla vista di tanto sconcio, emisi un sospiro di disappunto, tanto spontaneo quanto sonoro, che attirò su di me l’attenzione di tutti gli astanti, attori compresi: costoro, sorpresi dalla mia presenza, fermarono la loro recitazione, guardandosi gli uni gli altri con sconcerto, come se non sapessero più come riprendere.
Un brusìo crescente si diffuse attorno a me, che divenni subito il centro di un nuovo e più vasto capannello di gente che mi scrutava, mi indicava, faceva commenti sul mio modo di muovermi e, soprattutto, sulla mia impudenza nell’interferire in quella rappresentazione corale che animava l’intera piazza.
Il mormorio crebbe e crebbe, finché una voce possente si fece largo tra tutte le altre.
“Cosa succede quaggiù?” disse qualcuno con il tono di chi sia abituato a pretendere, più che a chiedere.
La folla si aprì subito in direzione della voce e venne verso di me un militare con la divisa da ufficiale: aveva gli occhi socchiusi, puntati fissi su di me, e una corta sciabola al fianco. A mano a mano che si avvicinava, potei guardare meglio i gradi sulle sue mostrine e ricordo ancora il mio stupore nel notare che si trattava nientemeno che di un generale!
Incurante di tutto il resto, fissai gli occhi su quei gradi; la greca e le stelle su quelle mostrine, tuttavia, non lasciavano dubbi: era proprio un generale.
Il mio sbigottimento non era ancora scemato, che un altro ufficiale si fece largo tra la folla ed un altro ancora già sopravveniva dalla mia destra. Guardai anche le loro mostrine ed erano tutte greche da generali.
Finì che mi trovai di fronte ai tre ufficiali che mi squadravano da capo a piedi ed ebbi l’impressione che nessuno di loro riuscisse a decidere cosa fare di me.
Attorno a noi quattro, si era assiepata tanta di quella folla, che l’intera piazza doveva essersi fermata a guardarci.
Ci furono diversi secondi di silenzio completo, surreale, durante i quali iniziai realmente a preoccuparmi che le cose potessero prendere un risvolto decisamente negativo per me.
Infine una nuova voce, comparsa quasi dal nulla, spezzò il silenzio e la tensione.
“Cosa abbiamo qui, signori?”
L’uomo aveva parlato con voce calma e bassa, senza usare alcunché di autoritario; a differenza degli altri, il suo ingresso nella piazza non era stato preceduto da ali di folla che si aprivano ed era per questo che non mi ero reso conto della sua presenza, almeno finché non ebbe parlato. Le sue parole, tuttavia, avevano attratto all’istante l’attenzione di tutti, in particolare dei tre generali, che assunsero immediatamente una postura rigida.
Mi voltai a guardarlo, preparandomi ad incrociare lo sguardo di un ufficiale di grado ancora più alto di un generale, dato l’effetto che le sue parole avevano avuto sui tre ufficiali che mi avevano fermato.
Di fronte a me, invece, trovai un ragazzo piuttosto giovane, senza berretto e con i capelli un po’ più lunghi di quanto le regole militari generalmente consentano; indossava una divisa militare da lavoro trasandata e portava il berretto infilato in un taschino della casacca, invece di calzarlo sul capo secondo ordinanza.
Non aveva alcun grado esposto sulla mostrina.
Non credevo ai miei occhi: era veramente un soldato semplice, quello che aveva appena messo sull’attenti tre alti ufficiali e l’intera piazza?
Si avvicinò con curiosità a me, tanto che potei leggere nome e grado sulla sua divisa; c’era scritto: ‘soldato semplice R. Burton’.
‘Che razza di disciplina militare impone a degli ufficiali di sottostare ad un soldato?’, pensai. Ero confuso come raramente mi era capitato in vita mia e, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a dare una logica a ciò che stava avvenendo in quella piazza. Nel dubbio, preferii rimanere in prudente silenzio.
“Non sei di qui, vedo” disse infine il soldato Burton.
Questa constatazione era talmente banale da risultare quasi offensiva: la mia postura e la mia camminatura, così diverse da chiunque altro nella piazza, i miei vestiti, sobri e scuri, la mia stessa presenza in quel posto erano talmente dissimili da tutto ciò che mi circondava che perfino un bambino mi avrebbe classificato all’istante come straniero. Non fu, tuttavia, questo che mi indignò, quanto il ‘tu’ che il soldato semplice Burton aveva usato con me senza chiederne il permesso, pur sapendo di avere a che fare con un completo estraneo.
Licenza resa ancor più grave poiché commessa da un militare!
Mi sorpresi ancor più della assurda disciplina che vigeva da quelle parti.
“Qui da noi bloccare la piazza è considerato un reato non grave: gravissimo”, aggiunse.
Non mi diede modo alcuno di controbattere, poiché si rivolse direttamente ai tre generali chiedendo (non vorrei dire ordinando) di arrestarmi e di condurmi immediatamente via, per ripristinare la tranquillità e l’ordine nella piazza.
Onestamente, non credetti che i tre ufficiali avrebbero eseguito una disposizione impartita da un soldato, ma venni immediatamente smentito dai fatti, quando venni afferrato come un delinquente di strada qualunque, imbavagliato e portato via di peso senza che potessi difendermi in alcun modo.
Erano, dunque, passate un paio d’ore dalla mia dimissione dall’ospedale, dal quale mi ero allontanato sì e no di un miglio, e tutto era precipitato addosso a me in un battibaleno.
Ricordo che, mentre venivo portato via di peso, mi ritrovai a rimpiangere la mia stanzetta nell’ospedale e finanche il lungo deliquio in cui ero caduto, nei primi giorni in cui l’avevo occupata.
Era lì che avevo avuto il primo traumatico contatto con quel Paese, stravagante ai limiti dell’incredibile.
Leggi qui la puntata precedente | Appuntamento alla prossima puntata con “Lo strabiliante viaggio di Anthony B. Elliott”].
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Elio Bucciantonio è nato a Chieti nel giugno 1967. Ingegnere gestionale, attualmente consulente, vive in Abruzzo, a San Salvo (CH), dove ha scritto la raccolta poetica “Settembre” (Ed. Cannarsa, 1993) e il romanzo “Il mondo perfetto” (Ed. Cannarsa, 2008).