Il 4 settembre del 1912, di buon mattino, avevo staccato i cavi di ormeggio della mia aeronave e mi ero alzato in volo in direzione Sud-Ovest, secondo il piano di volo che avevo dettagliatamente e lungamente valutato nelle settimane precedenti; il materiale e le vettovaglie erano state tutte stipate secondo le mie precise disposizioni e l’amministratore che avevo incaricato di curare le proprietà in mia assenza era ai piedi della scaletta che mi aveva condotto all’interno della cabina di pilotaggio. Anzi, fu proprio lui che la staccò dal terreno ad un mio cenno, consentendomi di riavvolgerla e di dare così avvio alle procedure di partenza.
Il vento era ben propizio e raggiunsi il mare in breve tempo. All’orizzonte Ovest, nubi lontane facevano da cornice all’orizzonte, mischiandosi ad esso in una specie di aura grigia ed azzurra che continuava a perdita d’occhio.
Gli strumenti indicavano una temperatura fredda ed umida, ma all’interno dell’abitacolo ero ben riparato da qualsiasi agente atmosferico e, d’altronde, l’adrenalina che il viaggio aveva iniettato nelle mie vene sarebbe da sola bastata a compensare ogni genere di intemperie!
Ero euforico, eccitato, concentrato su qualsiasi dettaglio, deciso più che mai a compiere fino in fondo il mio viaggio e la mia ricerca.
Il mio ottimismo era esaltato dalla lettura degli strumenti, che convalidavano tutti i miei calcoli su rotte, traiettorie, distanze percorse e perfino sulle condizioni meteorologiche che stavo affrontando.
Era una lucida ebbrezza quella che fremeva appena al di sotto della mia pelle, che dava vigore ai miei movimenti come ai miei pensieri: ero lì, dove avevo desiderato essere, nel modo e nei tempi che avevo tanto a lungo calcolato. Cosa al mondo sarebbe mai riuscito a farmi, non dico desistere, ma anche solo deviare dal mio tragitto?
Trovai la risposta dopo appena 72 ore dalla partenza.
Un fortunale aveva iniziato a montare di forza e la prudenza mi suggerì di portarmi sottocosta, per riparare l’aeronave dalle violente raffiche di vento che soffiavano dall’Oceano; abbassai la quota di volo a meno di 150 piedi e manovrai per accostarmi di più verso la sagoma scura delle falesie che delineavano la costa. Sotto di me, le onde ormai si accavallavano le une alle altre, frantumandosi sulle rocce con un unico, roboante fragore ed immaginai che nessuna imbarcazione che si fosse trovata in quel momento lontana dal porto avrebbe potuto reggere l’urto di una tempesta tanto violenta.
La pioggia batteva sullo scafo della mia navicella con tanta forza da sembrare grandine e avrei certamente dedotto che di grandine si fosse trattato se gli strumenti non avessero indicato condizioni rigide, ma non tali da prefigurare una grandinata in atto.
Nonostante la temperatura bassa, governavo la aeronave indossando solo una camicia con le maniche arrotolate sugli avambracci, poiché certamente l’ottimo isolamento termico dello scafo, ma soprattutto la tensione nervosa che attraversava ogni fibra del mio corpo, costituivano un deterrente senza pari per il freddo.
Lo scafo rollava e beccheggiava, proprio come un vascello che si fosse trovato tra i flutti più in basso e aumentai i giri del motore per raggiungere quanto prima il riparo offerto dalle alte scogliere di quel tratto di costa; fui certamente sollevato dal percepire che l’aeronave rimaneva più stabile, al riparo dalle rocce e pensai, quindi, di costeggiarle per cercare un punto in cui atterrare ed aspettare che la violenza del nubifragio si attenuasse. Le carte topografiche indicavano a poca distanza da me l’imbocco di un calanco che si addentrava per qualche miglio nella terraferma, disegnando una curva piuttosto stretta verso Sud ed offrendo perciò un buon riparo dalla tempesta che batteva la costa in quel momento.
Mi era noto che a volte, all’ingresso di questi fiordi, il vento tende a creare vortici violenti e reflussi imprevedibili, pericolosi per i marinai più incauti e, immaginavo, ancor più per gli aeronauti appena meno che prudenti, per cui, giunto che fui ad un quarto di miglio dall’imboccatura, impostai la cabrata per entrare nella ria dall’alto e non dall’altezza delle falesie.
Non appena salii di quota, l’aeronave riprese subito a ballare ed io manovrai per preparare la virata e la successiva discesa verso il fiordo. Guardavo fisso davanti a me, con le mani talmente serrate attorno al timone da avere le nocche albine. La spaccatura del calanco era ormai perfettamente allineata alla mia rotta ed inizia la manovra di discesa al suo interno, dove le alte pareti di roccia mi avrebbero riparato dalle raffiche di vento che turbinavano senza sosta. L’aeronave beccheggiava moltissimo e un solo errore da parte mia mi avrebbe portato a schiantarmi senza speranza sulle rocce scure che bordavano il fiordo. Oltre alle luci di navigazione, avevo acceso anche già le luci di atterraggio, per vedere meglio eventuali ostacoli sotto di me.
Un boato abbagliante squassò la cabina di pilotaggio, strappando le mie mani dal timone e proiettandomi letteralmente contro il soffitto.
Il fulmine non aveva colpito l’aeronave, appositamente progettata senza materiali metallici all’esterno e senza punte lungo l’intera superficie, ma si era abbattuto su uno spuntone roccioso che emergeva a poche yarde di distanza dal terreno roccioso, levigato da secolari intemperie.
Il colpo mi tolse il respiro per alcuni istanti, durante i quali non riuscii a discernere se le vertigini che mi invadevano provenissero dall’anossia o dai movimenti incontrollati della aeronave che, senza controllo, aveva ripreso rapidamente quota, finendo in totale balìa dei venti che vorticavano violentemente.
Fuori dal finestrino, il grigio della pioggia, quello dell’oceano e quello delle nuvole erano ormai indistinguibili e la mia fame d’aria era ad ogni istante sempre più opprimente, incapace come ero di muovere i muscoli del torace e di contrarre il diaframma. Ciononostante, cercavo comunque di rialzarmi poiché, pur senza una vera ragione, ero certo che se fossi rimasto a terra non avrei avuto più speranza di rialzarmi e, a quel punto, riprendere a respirare sarebbe diventato impossibile: forse per questo, per tutto quel breve lasso di tempo ero rimasto aggrappato ad uno spigolo della plancia, nel quale avevo affondato anche le unghie ormai. Fu proprio questa consapevolezza che mi distrasse dal panico che montava rapidamente. Mi concentrai sul dolore delle dita della mano, focalizzando su di esso ogni mio pensiero.
La cabina, in quel momento, roteò nuovamente (o, forse, per la prima volta, non avrei saputo dirlo) su se stessa ed io finii pesantemente contro la plancia a peso morto.
Il colpo tuttavia fu benefico, perché mi diede impulso a muovere di nuovo il torace e a riprendere finalmente aria nei polmoni. Non abbandonai la lucidità nemmeno allora, per fortuna: sapevo che il pericolo ora era l’iperventilazione e lottai per dominare la fame d’aria ed impormi inspirazioni lunghe, seguite da espirazioni cadenzate.
Inspirare, espirare, calma.
Niente altro trovava posto nella mia testa, mentre l’aeronave continuava il suo volo incontrollato a piena forza nella tempesta.
Quando sentii il mio cuore battere meno violentemente, capii che la crisi era passata e pensai che avrei dovuto concentrarmi sul problema immediatamente successivo, cioè tornare a governare il velivolo.
Fu allora che un ultimo scossone fece crollare su di me i pochi strumenti rimasti ancora intatti, lasciandomi quasi in fin di vita sul pavimento della cabina di comando.
In quei pochi istanti persi ogni cognizione del tempo e sprofondai in un deliquio che non saprei dire se sia durato pochi istanti o giorni interi, durante il quale pensieri e sensazioni contrastanti si accavallavano gli uni alle altre, dandomi la sensazione di naufragare in un abisso oleoso senza suoni, dal quale emergeva ad intervalli regolari un pensiero ossessivo, come uno scoglio che venga temporaneamente sommerso dai marosi in tempesta, per poi riemergerne di nuovo e di nuovo e di nuovo ancora, stagliandosi nero ed immobile rispetto alla schiuma che incessante gli ribollisca attorno.
La mia mente continuava a rammentarmi: “… ho sempre detestato viaggiare …”
Leggi qui la puntata precedente | Appuntamento alla prossima puntata con “Lo strabiliante viaggio di Anthony B. Elliott”].
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Elio Bucciantonio è nato a Chieti nel giugno 1967. Ingegnere gestionale, attualmente consulente, vive in Abruzzo, a San Salvo (CH), dove ha scritto la raccolta poetica “Settembre” (Ed. Cannarsa, 1993) e il romanzo “Il mondo perfetto” (Ed. Cannarsa, 2008).