Il ricordo più nitido che ho, poco prima che entrassi nella corte di Hediclusp, è il tonfo di un portone che si chiudeva alle mie spalle, riportandomi alla realtà.
‘Quali altre assurdità dovrò ancora vedere in questa giornata?’, ricordo di aver pensato.
Il buio improvviso, intanto, aveva reso più nervosi i cavalli, che iniziarono a sbuffare rumorosamente e a scalpitare sul selciato.
In pochi istanti gli occhi si abituarono alla semioscurità e cominciai a percepire a poco a poco i confini dell’ambiente in cui mi avevano portato.
Sembrava un piazzale piuttosto ampio – forse mezzo miglio quadrato, forse più – chiuso sul soffitto e circondato lungo tutto il perimetro da un porticato di colore più chiaro; lo spazio davanti a noi era completamente sgombro e regnava un silenzio totale, tanto che gli zoccoli dei cavalli creavano eco continue.
Sentii che dall’esterno stavano aprendo lo sportello della mia carrozza e, per la prima volta da quando avevo messo piede in quel Paese ignoto, un fremito di angoscia salì dal mio ventre, bloccandomi finanche il respiro.
Di colpo mi resi conto di quanto potessi essere inerme nella mia condizione, ignaro com’ero di usi, leggi, costumi di un Paese che ora, all’improvviso, non mi appariva più tanto emozionante da scoprire quanto pericoloso da affrontare ed oscuro da conoscere.
Non avevo nessuno cui appellarmi per avere assistenza o per chiedere lumi: ero completamente inerme a chiunque avesse il potere di disporre di me in quel frangente. Chiunque.
Soprattutto, più di ogni altra cosa, non c’era nessun altro al mondo che sapesse dove ero finito e, perciò, che potesse in qualsiasi modo tirarmi fuori di lì.
Quei pochi istanti in cui la serratura scattava furono interminabili e il mio sguardo non riusciva a staccarsi da quella maniglia che aveva iniziato a roteare, lasciando alfine l’anta libera di girare sui suoi cardini e di spalancarsi lentamente.
Un’ombra si mosse appena al di fuori. Guardai meglio in quella direzione e riconobbi la sagoma dell’ufficiale che per primo avevo incontrato nella piazza della città; la sua andatura, scomposta e così innaturale ai miei occhi, ebbe il benefico effetto di distrarmi dalla inquietudine e di ridarmi lucidità.
Respirai a fondo. Ancora una volta.
Ora ero di nuovo in me stesso.
L’ufficiale salì sulla carrozza e mi squadrò attentamente più volte dai piedi alla testa, come se cercasse in me indizi di possibili grattacapi; infine, quando decise che era tutto a posto, mi ordinò di seguirlo.
Andammo verso una porta sul lato destro del piazzale, lui davanti, io dietro e due altri uomini alle nostre spalle, emersi senza preavviso dalla oscurità del porticato perimetrale.
Tenevamo un passo spedito e, per fortuna, avendo braccia e gambe libere, riuscii a stare in riga in quello strampalato corteo.
L’ufficiale aprì la porta e immediatamente venimmo accecati dalla luminosità che proveniva dall’interno e avvolti da un’ondata di voci, di risa, di musica e di innumerevoli altri suoni di festosità.
D’istinto, mi riparai gli occhi con il palmo della mano e, nonostante ciò, mi occorsero alcuni istanti per adattare i miei sensi al passaggio da buio e silenzio a luce e chiasso.
Alla fine entrammo, sempre nella stessa formazione, e ancora una volta (che non sarebbe stata neppure l’ultima) rimasi esterrefatto di fronte allo spettacolo che avevo intorno a me.
Si trattava di una stanza molto ampia, perfino più vasta del piazzale da cui provenivamo, con il soffitto alto più di dieci yarde e completamente affrescato da scene di vita all’aperto.
Al centro notai una battuta di caccia ad animali a me ignoti – dei canidi con zampe da lepre, ungulati con palchi da cervo, strani volatili con teste suine; sulla nostra destra la decorazione mostrava gentiluomini e gentildonne, suddivisi in tre squadre, che giocavano una specie di pallacorda in cui ogni squadra sembrava gareggiare contemporaneamente con entrambe le altre due; dall’altra parte della sala, poi, vidi dipinti dei nuotatori che incrociavano sott’acqua narvali rosa e branchi di polipi pinnati.
Quel soffitto somigliava a certe opere dei maestri fiamminghi del ‘400, popolati da bestiari strampalati quanto inverosimili, ma lo stile e il senso decorativo erano decisamente più moderni, simili per certi versi a quelli dei “Nabis” francesi.
Non riuscivo ad immaginare quanto tempo e quanta fatica fosse costato decorare un soffitto tanto vasto: l’opera risultava senza dubbio notevole, appariscente, ma la sua valenza artistica ai miei occhi non era onestamente molta.
Osservando il soffitto con il naso all’insù, non mi resi conto di essermi portato quasi al centro della sala; mi voltai per guardarmi attorno ma – incredibile a credersi! – la mia scorta era sparita e mi ritrovavo da solo in mezzo ad un bailamme incredibile, con decine e decine di persone, tutte ben vestite, che si affollavano in gruppetti, si scambiavano calici di champagne, intonavano canzoni “a cappella”, ridevano e scherzavano, il tutto avvolto in una atmosfera di euforico benessere, di leggerezza, di soave noncuranza, in cui tutti parevano compiacersi di essere partecipi di quella grandiosa giostra collettiva.
Guardai meglio ed impiegai alcuni istanti per mettere a fuoco un dettaglio che stranamente non mi era balzato alla vista subito. Probabilmente, devo ritenere, la somma di tutte le stranezze viste assieme in così poco tempo aveva confuso le mie capacità razionali, al punto che cose ovvie erano divenute improvvisamente straordinarie. In realtà osservavo già da qualche minuto la baraonda ciarliera che mi circondava, ma nella confusione non riuscivo a fissare la mia attenzione su nessuna persona in particolare, dato che l’insieme di tutti quelli nella sala sembrava soverchiasse la singola persona.
Era come guardare uno stormo di uccelli variopinti, che cambiano direzione di continuo pur restando costantemente in volo sopra lo stesso prato: l’osservatore è naturalmente portato ad osservare la forma, l’estensione, l’altezza dello stormo ma difficilmente riesce a prestare attenzione al singolo volatile, poiché è il movimento complessivo di quegli uccelli che attrae l’attenzione su di sé in maniera esclusiva.
Fu così che impiegai del tempo per accorgermi che molti indossavano sulla testa corone e diademi di impronta certamente regale, poiché le stesse persone portavano anche mantelle di ermellino sopra i vestiti e scettri con stemmi di casate a me, naturalmente, ignote.
Erano senza dubbio dei re!
Ma che ci facevano tanti sovrani nella stessa sala contemporaneamente?
Pensai subito che si trattasse di un qualche Alto Consiglio, adunatosi per deliberare su importantissime questioni che riguardavano quello strambo Paese.
Questa mia spiegazione, tuttavia, chiariva ancor meno il motivo per cui ero stato portato lì, straniero nemmeno troppo benvenuto per quella gente.
Sempre più incuriosito, rimasi al centro della sala a cercare di cogliere ulteriori dettagli che mi aiutassero a darmi spiegazioni su quanto stessi vedendo; notai, così, che la sala era completamente sprovvista di sedie, poltrone, seggi, scranni e perfino di panche, la qual cosa obbligava tutti a stare perennemente ritti (non oserei dire “in piedi”, visto che le strambe abitudini di quel Paese avevano a quel punto già ridefinito il senso di questa espressione).
Continuando ad osservare, mi accorsi che gli astanti si affollavano ora qua ora là, attorno ai vari re; costoro elargivano sorrisi, complimenti, frasi argute, stando perennemente in posa davanti a dei grandi quadri che raffiguravano paesaggi famosi: riconobbi la Porta di Brandeburgo, il Colosseo, la reggia dei Romanov di San Pietroburgo, le piramidi e la sfinge di El Giza e addirittura uno scorcio di foresta equatoriale con tucani e anaconda appollaiati sulle fronde dei rami. Di tanto in tanto, un addetto di sala spostava una macchina fotografica che avrebbe fatto invidia ad Alfred Stieglitz stesso ed immortalava uno dei sovrani davanti ad uno sfondo: lo scatto era immancabilmente accompagnato da applausi ed entusiasmo, ricambiati con larghi sorrisi dal re appena ritratto. A quel punto, dei solerti addetti cambiavano rapidamente lo sfondo dietro al sovrano e la fotografia appena scattata veniva portata di corsa a sviluppare.
Mi girai attorno e mi resi conto che la stessa scena si ripeteva infinite volte in ogni angolo della sala: tutti i re e i monarchi presenti si facevano ritrarre continuamente in posa davanti a sfondi sempre diversi e le loro fotografie, prodotte con un procedimento simile alla gomma bicromatata, venivano affisse in serie lungo le immense pareti di quella sala.
A quel punto, ogni spiegazione razionale che stavo costruendo era miseramente crollata: che razza di follia era quella? Che senso aveva quella cerimonia di pura finzione, perpetrata all’infinito?
Mi avvicinai ad una delle pareti, facendomi largo a fatica tra gruppi di festanti che si accalcavano attorno a nuove pose di vari monarchi; a ben pensarci, la mia camminatura, i miei vestiti, il mio stesso viso avrebbero dovuto attrarre la curiosità di numerose persone: sarebbe stato, per questo, naturale aspettarsi di finire in brevissimo tempo al centro dell’attenzione e di venire magari perfino additato con stupore da chiunque mi guardasse, invece nulla. Passavo in mezzo a quelle persone come fossi uno spettro – incorporeo ed invisibile – tanto che nel mio girovagare nella grande sala non venni degnato della minima occhiata da chicchessia.
Giunsi, infine, alla parete che era decorata da dozzine di fotografie di vari re, tutti ritratti davanti a paesaggi famosi; ogni foto aveva accanto a sé una placca che spiegava chi fosse il personaggio ritratto e (udite, udite!) quale “evento” del suo regno fosse stato immortalato!
Accanto ad una fotografia che ritraeva uno dei vari re davanti al castello di Amboise, ad esempio, lessi la seguente didascalia: “Sua Maestà N. Davenport, vittorioso nella campagna francese – 1897”; più in là un’altra foto ritraeva una regina davanti ad una villa romana e la targa recitava: “Sua Maestà A. Lansbury inaugura la Sua residenza romana – 1901”; un’altra ancora – una delle più clamorose, devo dire – mostrava un monarca piuttosto giovane, con un monocolo, davanti ad una spiaggia africana e la targa diceva testualmente: “Sua Maestà E. H. G. Craig, che colonizza l’isola di Mozambico al termine della Sua vittoriosa campagna africana – 1881”.
Ero allibito.
Si ritraevano davanti a sfondi posticci, posando di fronte a decine di persone, e poi avevano la sfrontatezza di spacciare quelle pacchiane finzioni per gesta grandiose? Quella gente doveva avere proprio una bella faccia tosta!
Sul mio onore, non avevo mai incontrato gente di rango con così basso senso della onorabilità e della probità! E in quella immensa sala ce n’erano decine, tutti totalmente assorti dalla loro infinita finzione, recitata con il beneplacito di innumerevoli gentiluomini e gentildonne (o presunti tali, dovrei forse dire)!
Ero furente per quanto stavo vedendo e mi trattenni dall’esplodere solo perché ricordavo ancora cosa era successo nella piazza della città, poche ore prima, e grazie a Dio la prudenza ebbe in me il sopravvento sulla impulsività.
Poi, ad un tratto, la baraonda cambiò improvvisamente.
Le risate e le canzoni si spensero una dopo l’altra e l’attenzione di tutte le persone, re e regine compresi, venne in breve attratta da un punto della sala, posto dalla parte opposta a quella in cui mi trovavo. L’euforia che permeava il luogo venne in breve soppiantata da sobrietà e serietà: qualsiasi cosa stessero facendo, tutti si fermarono ed iniziarono a voltarsi verso il punto da cui il nuovo umore si era sparso per la sala. Cercai di sollevarmi sulle punte dei piedi per vedere meglio cosa stesse accadendo, ma una massa di persone immobili si frapponeva fra me e l’origine di quel mutamento; dopo qualche istante, però, notai che il punto che calamitava l’attenzione generale si muoveva e, con esso, la folla che si scansava compostamente per lasciargli strada.
Doveva essere qualcuno di estremamente importante, senza alcun dubbio, poiché perfino i monarchi e le regine chinavano il capo al suo passaggio!
Il cuore iniziò a battermi sempre più forte: stavo forse per conoscere il re dei re di quel Paese?
Ad ogni istante, il polo dell’attenzione generale sia avvicinava sempre più al punto in cui ero e, di pari passo, la mia ansia cresceva: chi poteva essere il misterioso re dei re? Un vecchio sapiente con la lunga barba candida o un giovane e possente guerriero? Magari un politico con lo sguardo tagliente o forse un uomo di chiesa, ascetico ed inflessibile?
Chiunque fosse, si fermò a poche yarde da me ed aspettò che la folla tra di noi si diradasse. Era quindi proprio me che voleva incontrare di persona!
A mano a mano che i re e i nobili che si frapponevano tra noi iniziavano a spostarsi, essi posavano i loro occhi su di me e fu come se per loro fossi appena comparso nella sala: leggendo i loro sguardi, capii che mi stavano veramente vedendo solo in quel momento.
Quando, al fine, anche l’ultimo sguardo curioso si spostò, vidi una delle cose più bizzarre di tutta la mia vita.
Contornato da un coro di personaggi, tutti di alto lignaggio, che si erano disposti compostamente in semicerchio a circa due yarde da lui, c’era un uomo di statura bassa, molto giovane – quasi un ragazzino a giudicare dalla prima impressione – e con lo sguardo sottile e guizzante; spettinato, vestito di luridi cenci, con ai piedi pelli di capra avvolte in ruvidi canapi.
Strabuzzai gli occhi e per un pelo non emisi un grido di stupore: era, dunque, lui un “re-cencioso”, un “re-ragazzino,” il “re dei re” che comandava la corte del castello e, con essa, tutto il Paese in cui ero finito?
Girai rapidamente lo sguardo attorno, ma da un lato e dall’altro tutti gli astanti avevano l’attenzione calamitata sul giovane che avevo di fronte, mostrandogli non solo rispetto (cosa già di per sé incredibile ai miei occhi) ma addirittura una grande riverenza!
Era quindi costui che mia aveva disposto il mio arresto e il trasferimento nella sua reggia?
Probabilmente era stato così, ma per comprenderlo appieno, occorre che prima descriva come ero stato tradotto fino al castello e quanto assurde siano state le circostanze che precedettero questi eventi.
Leggi qui la puntata precedente | Appuntamento alla prossima puntata con “Lo strabiliante viaggio di Anthony B. Elliott”].
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Elio Bucciantonio è nato a Chieti nel giugno 1967. Ingegnere gestionale, attualmente consulente, vive in Abruzzo, a San Salvo (CH), dove ha scritto la raccolta poetica “Settembre” (Ed. Cannarsa, 1993) e il romanzo “Il mondo perfetto” (Ed. Cannarsa, 2008).