Prima la speranza per un’opera in grado di portare occupazione e soddisfare la sete dei fertili terreni, poi l’illusione durata qualche mese, infine la rassegnazione per un sogno sfumato.
È la storia della diga che doveva essere realizzata nella valle del Trigno tra Tufillo e Montemitro (Campobasso) che con la sua estensione e le opere infrastrutturali connesse avrebbe coinvolto anche i territori di Celenza sul Trigno, Dogliola, Fresagrandinaria, Roccavivara ecc.
IL CONTESTO – Come gran parte di quell’Italia che usciva dal drammatico secondo conflitto mondiale, le popolazioni del Vastese, nell’immediato dopoguerra, vivevano in una grave condizione di miseria. Gli abitanti dei piccoli comuni lavoravano soprattutto nei campi e sulla carta molti di loro erano proprietari terrieri. Il caso di Tufillo è emblematico. Nei primi anni Cinquanta si registravano 1.139 proprietà terriere: di queste, ben 1.034 (il 90,7%) avevano un’estensione minore di 2 ettari. Piccoli fazzoletti coltivati che non garantivano la sussistenza ai proprietari quindi costretti a lavorare come mezzadri, affittuari e braccianti a seconda dei casi e delle opportunità.
Tra le criticità principali c’era l’approvvigionamento idrico. A far intravedere giorni migliori arrivò l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno (CASMEZ) che doveva finanziare l’infrastrutturazione del Sud. Tra le opere previste c’era, appunto, la diga di Tufillo-Montemitro: non solo per migliorare l’irrigazione dei campi, ma anche per produrre energia elettrica attraverso l’imbrigliamento del fiume Trigno.
LA DIGA – Le aspettative intorno all’avvio dei cantieri per la grande opera non erano poche. Lo si percepisce leggendo anche le cronache dell’epoca.
“Questo il miracolo che si attende a Tufillo – scriveva il giornalista vastese Giuseppe Catania su Il Tempo – Uno dei più grandi benefici che la montagna possa elargire: l’energia racchiusa nelle acque impetuose e defluenti a valle; una forza che, trasformata in elettricità, animerà nuove iniziative e nuove fonti di lavoro, schiudendo, altresì, l’orizzonte turistico con più armonia verso le bellezze naturali delle località del Vastese ancora ignote”.
La costruzione della diga venne affidata alla ditta “SUI” nella convenzione stipulata nel marzo 1959 con la Cassa del Mezzogiorno: un invaso da 20 milioni di metri cubi sormontata da una strada panoramica, con una base alta 60 metri, che sarebbe arrivato a lambire l’area di Santa Maria di Canneto, una galleria di derivazione da 11 km con pendenza di 120 metri e oltre un milione di metri cubi di terra da rimuovere.
Le società Ghella, Gasperoni e Puccini (come si può leggere nel volume Tufillo di Ernano Marcovecchio e Giovanni Artese) iniziarono la costruzione di alcune infrastrutture accessorie come le gallerie in località “Caprafica” a Tufillo e altre opere a valle. A Fresagrandinaria era prevista la collocazione della centrale idroelettrica da 30mila kwh dalla quale sarebbero poi partite le linee elettriche di collegamento con la rete nazionale.
L’avvio del “colossale” cantiere provocò un boom occupazionale che impiegò la stragrande maggioranza della manodopera maschile presente a Tufillo e nei dintorni.
L’incoraggiante inizio però era destinato a durare ben poco. I lavori si interruppero bruscamente dopo il primo miliardo di lire speso. Il dietro front fu motivato da problemi di ordine finanziario e tecnico, l’Enel infatti non giudicava l’opera particolarmente redditizia per la produzione di energia elettrica.
Così, quegli accenni di modernità furono lasciati al loro destino e i tanti giovani che avevano appena assaggiato il riscatto lavorativo offerto dai cantieri tornarono alla condizione precedente; in molti scelsero di andare via. I dati di Marcovecchio e Artese testimoniano l’impatto demografico che lo stop ai lavori contribuì ad avere sulla popolazione. Nel 1951 i residenti a Tufillo erano 1.524, 10 anni dopo 1.232; nel 1971 il crollo è verticale: 872 residenti (al 31 dicembre 2017 la popolazione residente è di 404 unità).
Negli stessi anni, mentre nella vallata del Trigno si abbandonava il faraonico progetto, a Cupello venivano scoperti i ricchi giacimenti di metano che diedero il via allo sviluppo industriale di San Salvo calamitando la forza lavoro dell’intero territorio e non solo. La distribuzione demografica del Vastese venne completamente ridisegnata: San Salvo passò in circa 50 anni dalle poche migliaia di residenti a più di 20mila unità.
OGGI – L’abbandono del progetto portò alla realizzazione di altre due opere: lo sbarramento di Pietrafracida a Lentella (spazzato via dalla piena del Trigno del novembre 2015) e alla diga di Chiauci. Quest’ultima doveva soddisfare le esigenze irrigue della vallata e servire la nascente zona industriale sansalvese e le marine di Montenero di Bisaccia, di Vasto e della stessa San Salvo con un invaso da 15 milioni di metri cubi di capacità a regime. Ancora oggi, dopo circa 150 milioni di euro spesi, la struttura non è finita; basti pensare che solo nel luglio 2018 sono state presentate in Regione Abruzzo le ditte che la dovranno completare dopo oltre 30 anni dall’avvio dei lavori. Gli interventi annunciati e mai terminati in più occasioni hanno portato la popolazione locale a giudicare l’opera inutile per l’economia locale e dannosa a causa della devastazione del territorio.
Per quanto riguarda la diga di Tufillo-Montemitro, ciò che fu costruito all’epoca è ancora in parte visibile. Oltre alle gallerie di Caprafica, a Fresagrandinaria ci sono le opere realizzate nella vallata del torrente Annecchia. Le strutture in cemento armato sono state inghiottite dalla vegetazione, mentre è ben visibile il tunnel che – una volta completato – doveva passare sotto il colle del centro abitato: tutte testimonianze di quel progetto che avrebbe dovuto cambiare il destino delle popolazioni della valle del Trigno e che ben presto si rivelò una fugace illusione.