Senso di fastidio. Nausea. Stanchezza, sfiducia. Nervosismo. Di solito sono sensazioni che emergono con il cambio di stagione, e quindi anche con l’arrivo della primavera, a marzo. Per qualcuno però, diciamo per qualche decina di migliaia di persone, questo ‘malessere’ comincia a farsi sentire un po’ più tardi. Diciamo una decina di giorni dopo, verso fine mese.
Da otto anni, viviamo fino al 30 marzo senza stare a pensarci troppo, o al massimo facciamo finta di non pensarci, lo teniamo ‘buono’, silente. Ma il 30 marzo riesplode tutto. Il 30 marzo rappresenta il primo avvertimento di una certa gravità, quella scossa da 4.1 che era ben diversa da quelle a cui eravamo abituati da mesi. Il 30 marzo rappresenta l’ultima settimana. La settimana dei dubbi, delle paure, del tentativo di esorcizzare e di capire. La settimana prima dell’evento che segnò indelebilmente le nostre vite.
Ecco, noi quella settimana, da otto anni, la viviamo male. Può capitarci di tutto in mezzo: la Pasqua, una laurea, un matrimonio, una nascita, un nuovo posto di lavoro, un aumento dello stipendio, l’inizio di un rapporto, una grossa vincita alla SNAI, un’importante vittoria della nostra squadra del cuore. Niente. Non c’è niente che può sollevarci. Noi quella settimana la viviamo male. Per noi la primavera inizia dopo il 6 aprile. Mai prima.
Non è semplice farsi comprendere da chi “non c’era”, o da chi non c’è mai stato. Lo sapevamo dal primo giorno che tutto sarebbe stato estremamente difficile, compreso raccontare e spiegare.
Eppure per me ‘raccontare’ dovrebbe essere la normalità. D’altronde, è questo il mio mestiere. Nel mio piccolo, ho sempre provato a farlo, ogni anno. Ma non è affatto semplice. È come quando da piccolo ti sbucciavi il ginocchio giocando a pallone, e dopo qualche giorno ti toglievi la crosta prima che la ferita guarisse completamente. Quella ricominciava a sanguinare. Ogni volta che il terremoto torna a fare capolino nella mia vita, nelle nostre vite – sia materialmente come accaduto negli ultimi mesi, sia mentalmente come accade ogni giorno da otto anni e ancor più in questa settimana – mi rendo conto, ci rendiamo conto che la ferita non è mai guarita completamente. Se togli la crosta, sanguini. Sempre. E vale anche per uno che tenta, con tutti i suoi limiti, di svolgere questa professione.
Otto anni sono tanti. Questo 6 aprile, come ho accennato poco sopra, lo viviamo con più angoscia rispetto agli ultimi, proprio per via dei recenti avvenimenti che hanno sconquassato ampie zone vicine a L’Aquila, e in alcuni casi molto legate, come Amatrice. Avvenimenti che ci hanno fatto ripiombare nell’incubo, ci hanno resi nuovamente fragilissimi, spaesati. Perchè basta un attimo per far riaffiorare tutto, per far sì che tutto quello che a fatica avevamo lentamente messo ad un angolo, con un lavoro di tanti anni, rioccupi prepotentemente tutto lo spazio. Lo puoi superare, ma non puoi pretendere di eliminarlo, perchè di tanto in tanto dovrai farci i conti.
Ogni 6 aprile, da quel 2009, l’ho vissuto da ‘domiciliato a L’Aquila’. Stavolta no. Ho lasciato casa e non sono più un abitante del capoluogo d’Abruzzo. Ma oggi voglio comunque essere qui. Voglio essere qui per percorrere ogni angolo del posto che mi ha concesso la possibilità di costruirmi un futuro. Per accarezzare le sue ferite, per sorridere di fronte alle sue guarigioni, per scuotere la testa pensando che forse, su molte questioni, andrebbero fatte altre scelte.
Otto anni sono tanti, e nel frattempo la città sta recuperando una sua fisionomia. Come ho già scritto in passato, “noi” che viviamo molto male questa settimana troviamo spesso rifugio nel ricordare la città che abbiamo amato alla follia. Quella dei mille locali, del centro abitatissimo dagli studenti, delle meravigliose piazzette, e di tanto altro ancora. Ci troviamo seduti ad un tavolo, a raccontarcele tra di noi, e magari a raccontarle ai più giovani, provando a illustrare luoghi che per loro sono ignoti. Qualche volta – e anche questo lo sanno in molti – mi piace lasciarmi trasportare su quelle strade, in solitaria. Qualche volta mi piace farlo portandoci proprio chi non le ha mai conosciute.
La città, però, cambia progressivamente, e so già che una larghissima parte di ciò che racconto resterà solo nei miei ricordi. Spesso, in questi anni, ho pensato che mano a mano si sarebbe potuti tornare esattamente alle stesse dinamiche di prima. Ma non è così, non può essere così: il tempo passa inesorabile, le generazioni cambiano, i costumi, le abitudini, i tessuti. Subentrano nuove forme. Forme che magari saranno egualmente ricche di vita e di entusiasmo.
A noi non resta che tenerci stretti quei meravigliosi anni che abbiamo vissuto. Cercando sempre di far prevalere quella risata, quella palpitazione, quel ricordo sereno, quell’immagine di eterno, a quella sensazione di fastidio che talvolta, come in questa settimana, ci attanaglia e non ci lascia.
Passerà.
A L’Aquila, capoluogo d’Abruzzo, gioiello d’Italia.
Roberto Naccarella