Oggi ricorrono i 60 anni dalla frana che, nel 1956, sconvolse la città di Vasto. Un avvenimento che ha segnato la storia e l’assetto urbanistico di una importante zona della città con il crollo di case e, nei mesi successivi, al crollo del Palazzo delle Poste e all’abbattimento della chiesa di San Pietro. Pubblichiamo l’interessante ricostruzione di quegli avvenimenti di Lino Spadaccini (con materiale fotografico degli archivi di Ida Candeloro, Nicola Scopa e Di Marco).
Sessant’anni fa, il 22 febbraio 1956 si abbatteva su Vasto una delle più gravi sciagure della sua storia, quando un vasto movimento franoso provocava il crollo di una buona parte del Muro delle Lame. Nel settembre del 1955 già erano comparse le prime crepe lungo via Adriatica e su alcuni edifici, non risparmiando anche una parte dei locali della secolare chiesa di San Pietro. I tecnici del Genio Civile di Chieti elaborarono un razionale piano di indagini costituito da una serie di rilevamenti geomorfologici sia nel sottosuolo di Vasto che nella parte più a est verso il mare.
Ad ottobre, per scongiurare la frana, don Romeo Rucci decise di portare in processione, per le strade del centro storico, la reliquia del Legno della Croce. Oltre ai chierici, al parroco ed alle rappresentanze del comune con il Gonfalone, partecipò tantissima gente composta e commossa, ma già consapevole di quello che sarebbe potuto accadere da un momento all’altro. In seguito al preoccupante evolversi della situazione, dopo ulteriori verifiche delle crepe, sempre più numerose e profonde, i tecnici comunali decisero l’evacuazione delle case più a rischio.
Nella seduta consigliare del 7 aprile, il sindaco di Vasto, l’avv. Olindo Rocchio, con voce commossa ricordò proprio quei momenti precedenti la frana: “Devo primieramente far notare che, se nessun danno è stato riportato dalle persone, ciò si deve al vigile interessamento dell’Ufficio Tecnico Comunale, che costantemente ha controllato, fin dai primi sintomi, il movimento franoso, tenendone avvisato il Genio Civile di Chieti, che preliminarmente ha eseguito in diversi punti della Città dei sondaggi, dai quali è risultata la presenza di rilevante quantità di acqua nel nostro sottosuolo, esclusa la possibilità di guasti nelle condutture e fognature. Lo stesso Genio Civile inoltre ha effettuato altri ripetuti sopralluoghi dando le necessarie disposizioni, tutte prontamente eseguite. Così, man mano che ne sorgeva la necessità, venivano sgombrate le case pericolanti, ed i relativi inquilini trasferiti in comodi alloggi procurati dall’Amministrazione Comunale”. L’operazione non fu affatto semplice: a convincere la povera gente a lasciare le case, costruite con tanta fatica, intervennero non solo il sindaco, il segretario comunale ed il parroco don Romeo Rucci, ma anche le forze dell’ordine. Addirittura, una donna ostinata, per non lasciare la propria casa, si nascose in una buia soffitta. Quando venne trovata, tra le lacrime, gridò “Lasciatemi morire qui”.
Il mese di febbraio del 1956 viene ricordato ancora oggi come uno dei mesi più gelidi di tutto il XX secolo. “Bufere di neve di inaudita violenza”, “Nuove bufere di neve si abbattono sul Teatino”, “Una nuova ondata di gelo si è abbattuta sull’Italia”, erano questi i titoli che quotidianamente si leggevano sui giornali nazionali e che testimoniavano una situazione che, giorno dopo giorno, diventava sempre più drammatica. Le nevicate cominciarono a scendere copiose nei primi giorni di febbraio, nelle aree interne ed anche sulla costa. Molti i comuni abruzzesi rimasti isolati: i giornali parlarono di 89 comuni su un totale di 102. Il 5 febbraio proseguirono intense bufere di neve sia all’interno che sulla costa. A Chieti la coltre nevosa raggiunse il metro di altezza. Dopo una breve pausa, il giorno 6 una nuova ondata di maltempo si è abbatté su tutto l’Abruzzo, fino al giorno 8. Dopo una tregua di un giorno, nel quale si rivide un pallido sole, si verificarono ancora abbondanti nevicate, creando enormi disagi alla popolazione e ai tanti comuni rimasti completamente isolati. Le precipitazioni nevose cessarono il 20 febbraio e, con l’innalzarsi delle temperature, la neve cominciò rapidamente a sciogliersi. Le successive abbondanti piogge contribuirono a peggiorare ulteriormente la situazione, che portò al collasso di tutto il costone orientale.
La mattina del 22 febbraio, alle ore 10,45 si udì un forte boato, simile allo scoppio di una bomba: una quarantina di case poste su via Adriatica, si staccarono dalle fondamenta, rovinarono su se stesse e cominciarono a scivolare verso il basso, alzando un immenso polverone. Fortunatamente, tutta la zona era già stata evacuata e le famiglie ospitate nei locali della scuola elementare. Gli unici ancora presenti nella zona erano le suore delle Figlie della Croce, all’interno dell’asilo, e don Michele Ronzitti, che al momento del disastro si trovava nella cappella di S. Giovanni Battista, all’interno della chiesa di San Pietro, intento a sbrigare le pratiche per un matrimonio.
È Giorgio Pillon a raccontare quei tristi momenti, quando le suore rimasero a vegliare il Sacramento custodito in un’artistica pisside dorata: “E fu proprio quando don Michelino Ronzitti prese la pisside e se la strinse al petto che si udì un lungo e sordo boato. Poi tutto prese a sussultare: i pavimenti, i soffitti, le pareti. Grossi squarci si aprirono qua e là mentre un polverone irrespirabile avvolgeva il sacerdote… L’asilo non crollò subito. Rimase invece ancora saldo mentre tutto intorno sprofondava. Fu così che don Michelino e le Suore poterono mettersi miracolosamente in salvo”.
In tutta la zona ci fu un fuggi-fuggi generale. Solo quando la situazione cominciò a calmarsi, pian piano la gente cominciò ad affacciarsi per cercare di capire quello che era successo. Dopo mezz’ora, tutta la popolazione si rimboccava le maniche e collaborava con le autorità. Altre 60 famiglie sfollate (per un totale di 117 famiglie ufficialmente registrate), vennero sistemate in gran parte nei locali delle scuole elementari e delle medie, dove ricevettero pacchi di viveri e indumenti forniti da privati, autorità ed enti. Don Romeo Rucci, aiutato dai parrocchiani, provvide a trasferire le statue e le suppellettili presso la vicina chiesa di Sant’Antonio di Padova. Due giorni dopo, il 24 febbraio, il parroco organizzò un’imponente processione religiosa con la statua di San Michele Arcangelo, le reliquie della Sacra Spina, del legno della Croce e quella del braccio di Santa Liberata. Inoltre; i parroci delle tre parrocchie, di comune accordo, decisero di esporre le reliquie più preziose conservate nelle rispettive chiese, per impetrare il soccorso e la protezione divina.
Tra i primi provvedimenti del Governo, ci furono l’assegnazione di 50 milioni di lire per le opere di pronto intervento e per l’acquisto di case prefabbricate da assegnare agli sfollati, mentre l’Istituto delle Case Popolari, appaltò subito due lotti di 30 alloggi ciascuno, per l’importo di 104 milioni. Aiuti materiali arrivarono anche dall’ex Re Umberto, così come annunciato il 26 febbraio dal Giornale Radio delle ore 20,30: “Coperte, viveri e danaro offerti alla popolazione di Vasto dall’ex Re Umberto sono stati distribuiti dall’ex Ministro della Real Casa, on. Falcone Lucifero, durante una visita”. La notizia venne riportata, due giorni più tardi, anche sul quotidiano Il Giornale d’Italia: “La giornata di domenica è stata trascorsa dal Ministro della Real Casa, on. Falcone Lucifero, a Vasto, ove ha portato gli aiuti e l’espressione della solidarietà di Umberto di Savoia alla popolazione della cittadina abruzzese che vive ore di dolore e di ansia per la frana che ha già distrutto molte abitazioni ed altre ne minaccia. Il ministro Lucifero ha visitato i luoghi sinistrati ed ha distribuito coperte, viveri e denaro, ovunque accolto dalla commossa riconoscenza degli abitanti verso Umberto di Savoia”.
Una delle prime iniziative popolari fu la costituzione di un Comitato Civico per la raccolta di fondi a favore degli sfollati. In circa un mese si raggiunse la ragguardevole somma di 3 milioni di lire: un importo molto significativo in quanto le offerte giunsero spontaneamente da privati, a mezzo vaglia postali o cambiari, versati su libretti aperti presso la Cassa di Risparmio ed il Banco di Napoli. Anche se l’attenzione principale era concentrata su via Adriatica, c’era la massima allerta anche in altre zone della città: al Rione S. Nicola, a Casarza ed a Torricella si registrarono i crolli di alcune case, mentre enormi boati provenienti dal sottosuolo vennero uditi dalla popolazioni nei pressi di piazza del Popolo e nel Rione San Michele. In via Tre Segni crollò definitiva la via che conduceva a Fonte Joanna; altri scoscendimenti e smottamenti del terreno continuarono particolarmente in tutta la zona sottostante.
Le cause. La terribile sciagura del 22 febbraio 1956 non è giunta all’improvvisa. Solo un mese prima, Espedito Ferrara sulla prima pagina del periodico Histonium denunciava: “La frana a Vasto, è all’ordine del giorno, anche se sembra passare in seconda linea dopo i sondaggi effettuati dal Genio Civile. Trenta famiglie sono state costrette ad abbandonare le abitazioni; la splendida via delle Lame è chiusa al traffico. Un triste fenomeno, che dal 1816 si ripete di volta in volta”. Le avvisaglie sono state tante nell’arco di un secolo e mezzo: da più parti, negli anni precedenti la sciagura, vennero sollevate accuse alle autorità competenti e politiche, locali e nazionali, per aver sottovalutato un problema che ha origini lontane. I primi scoscendimenti si registrarono verso la fine del 1700, ed altre di modeste proporzioni, ma non per questo meno allarmanti, durante tutto l’800, per non parlare poi della rovinosa frana del 1816, che fece sprofondare a valle il costone orientale nel tratto da Porta Palazzo fino a San Michele. Davanti a tanti evidenti segnali, piuttosto che affrontare il problema alla radice, non si è mai andati oltre modeste riparazioni, oppure esecuzione di lavori mai veramente risolutivi.
Nel gennaio del 1942, un vasto movimento franoso, per una lunghezza di circa 150 metri, si verificò nella zona sottostante la Madonna della Catena. Visti i drammatici precedenti, si mise immediatamente in moto la macchina dei tecnici per effettuare le dovute verifiche, ma anche per cercare di capire e risolvere una volta per tutte il triste fenomeno delle frane. Da una nota stilata dall’ing. Riccardo Formichi dell’Ufficio del Genio Civile di Chieti, in seguito al sopralluogo effettuato sulla zona franata, venne stabilito che “i fabbricati della contrada Madonna della Catena poggiano su una roccia calcarea non compatta, con piani di sfaldamento quasi sempre verticali”. Alcuni dei fabbricati risultarono lesionati, mentre un altro era già crollato alcuni anni prima. “Un tratto di circa 150 metri della via della Catena”, si legge ancora nella nota, “corre a mezza costa e la roccia su cui poggia tende a sfaldarsi. Da informazioni assunte sul posto si è potuto stabilire che al posto della vallata su sui si affaccia la Via della Catena vi era tutta roccia che sfettandosi continuamente negli anni decorsi ha dato luogo alla vallata stessa ed alle lesioni dei fabbricati”. Si giunse così alla conclusione che il movimento franoso fu causato dalla degradazione della roccia calcarea e che, per arrestare il movimento, era necessario la costruzione di un muro di sostegno robusto “con adeguati speroni in muratura”. Una nuova frana, questa volta nella zona sottostante via Adriatica, si verificò nella notte tra il 18 ed il 19 febbraio, causando il danneggiamento di alcuni edifici.
Due giorni più tardi, il Commissario Prefettizio firmò un ordine del giorno per permettere le dovute verifiche: “L’ufficio Tecnico comunale ispezionerà continuamente la zona franosa, la strada ed il muraglione di sostegno dell’abitato, in maniera da accertare il decorso della frana e di essere in grado di indicare tempestivamente i provvedimenti da adottare. Ispezionerà minutamente, inoltre, le fognature di Via Costanzo Ciano (già Via Adriatica) e vie adiacenti procedendo alle necessarie riparazioni onde evitare dispersioni ed infiltrazioni di acqua nel muraglione della via Costanzo Ciano. Chiuderà, inoltre, tutti gli sfiatatoi esistenti nel parapetto della via suddetta verso il terreno sottostante in maniera da evitare che le acque piovane si riversino sul terreno stesso”. Dopo gli accertamenti strutturali degli edifici, vennero requisiti alcuni alloggi per permettere la sistemazione delle famiglie sgombrate dalle case pericolanti: tra queste, troviamo quelle di Bernardino Bernardini, Nicola Del Prete, Giuseppina Ciarallo, Vittorio Vallone e la signorina Aida Volpe. La terra tornò nuovamente a muoversi il 31 marzo successivo, provocando il crollo di una parte del muraglione di sostegno del piazzale dinanzi la chiesa di San Michele. Il giorno successivo, il Commissario Prefettizio, inviò una nota al Prefetto informandolo dell’accaduto. In seguito ai movimenti franosi, vennero disposti dal Ministero dei Lavori Pubblici, lavori di consolidamento da eseguirsi immediatamente. Altri lavori, vennero programmati, con le competenze divise tra Ministero, Ferrovie dello Stato, Forestale, Provincia e Comune di Vasto. Lo stesso Ministro Giuseppe Gorla, il 9 maggio, giunse nella nostra città, per verificare la situazione. Così annotava la visita sul suo diario: “Proseguo per Istonio (Vasto) che vuole l’allargamento del porto e il consolidamento della grande parete franosa che minaccia l’intero abitato e sopra tutto il magnifico Palazzo d’Avalos. Nella provincia più franosa, Istonio registra il maggior numero di frane, primato veramente non invidiabile”.
Ma non finisce qui. Nell’ottobre dello stesso anno, ancora un movimento franoso, provocò il crollo della parte più avanzata del palazzo Bernardini, lungo Via Adriatica, interrompendo la strada nazionale Istonia e la linea ferroviaria. La situazione risultò piuttosto confusa, con il susseguirsi di verifiche e sopralluoghi. Il 26 maggio del 1943, nel palazzo comunale, il Podestà, il Presidente della Provincia e le altre cariche competenti si riunirono per fare il punto della situazione. “I tecnici delle FF.SS.”, si legge in un promemoria, “…hanno messo in evidenza come nel sottosuolo di detta zona a notevole profondità vi sono falde acquifere di notevole portata che sono la origine di tutti i movimenti franosi verificatisi. Pertanto per comune opinione di tutti i convenuti, si ritiene necessaria la costruzione di una galleria di raccolta di tutte le acque che dovrebbero essere convogliate verso il mare. Si è anche concordemente riconosciuta l’opportunità che detta galleria anziché svolgersi a valle del muro di sostegno dell’abitato, venga progettata a monte del muro stesso e cioè sotto l’abitato di Istonio. Prima però di affrontare questa soluzione si ritiene opportuno fare qualche altra trivellazione per completare la conoscenza del terreno con saggi da farsi entro l’abitato”. In seguito alla perizia redatta dal Genio Civile di Chieti, la spesa da sostenere per i lavori ammontava a 700.000 lire. Un primo tratto di muraglione venne appaltato alla ditta Battistella di Lanciano. Per il secondo tratto, l’approvazione ministeriale, nonostante il via libera dato nell’estate del 1943, tardò ad arrivare, anche perché non bisogna dimenticare che era in atto il secondo conflitto mondiale. Lo stesso Giuseppe Spataro, allora Sottosegretario alla Presidenza dei Ministri, cercò di smuovere le acque sollecitando soprattutto i suoi amici più influenti. In una lettera ricevuta dal Sottosegretario del Ministero dei Lavori Pubblici, gli venne assicurato il massimo interessamento: “Carissimo Peppino, memore delle tue premure per il consolidamento di Vasto mi è gradito comunicarti che in data odierna ho nuovamente telegrafato al Provveditore alle Opere Pubbliche di Aquila affinché curi che la redazione del progetto del nuovo muraglione da costruire venga espletata con la massima sollecitudine e provveda poi d’urgenza all’inizio dei relativi lavori”.
Finalmente, con lettera datata 30 giugno 1945, il provveditore regionale delle opere pubbliche, con sede a L’Aquila, comunicò l’approvazione del decreto per i lavori di completamento del 2° lotto delle opere di consolidamento dell’abitato, per un importo di 5 milioni di lire. I lavori vennero questa volta affidati all’Impresa Bottari F. Paolo, il quale si trovò a dover fronteggiare il problema della mancanza di mattoni (si parla di oltre 500.000 mattoni impiegati), in quanto la ditta Storto, Tenaglia e Petrini di Vasto, piuttosto che mettere da parte il quantitativo necessario, come gli era stato più volte intimato, preferì venderli fuori provincia, ad un prezzo più alto. Sul quindicinale della Democrazia Cristiana Lo Scudo, nel numero pubblicato nel maggio del 1946 si leggeva: “Per merito della solerte impresa Bottari, appaltatrice dei lavori, e dell’egregio Ingegnere Cordella, Direttore tecnico per conto del Genio Civile, i lavori di costruzione del nuovo muraglione di sostegno dell’abitato e di risanamento della secolare frana, che ha sempre minacciato la collina di Vasto, avanzano alacremente. Per poter costruire sopra fondazioni solide, si è dovuto leggermente arretrare il detto muraglione e di conseguenza, pur diminuendosi la pendenza di esso, si è dovuto restringere il piano stradale, che però è divenuto quasi rettilineo, eliminandosi vecchie reintrature e sporgenze tortuose. Per quanto la vecchia strada Adriatica non sia una strada di grande traffico, essa ha e deve mantenere il carattere di passeggio pubblico, che le è naturale, dato il meraviglioso panorama, che il viandante gode percorrendola. Per questo motivo si sente l’assoluta necessità di fare ogni sforzo per ampliare la larghezza e dotarla di marciapiedi, sia lungo le case, sia lungo il parapetto verso il mare. Per raggiungere questo scopo necessita costruire un marciapiede pensile dalla parte del mare, mediante la costruzione di una soletta di cemento armato, con dispendio molto limitato, che potrebbe andare a carico dello Stato, come un completamento dell’opera del muraglione. Naturalmente sul detto marciapiede pensile, invece dell’antiestetico e pesante parapetto in muratura, dovrebbero costruirsi delle eleganti colonnine con ringhiera intermedia, per cui Vasto riavrà la sua bella strada di passeggio di fronte all’incantevole panorama”.
Finalmente, e con non poca fatica, si giunse al completamento dell’opera, ma già dal 1953 si cominciarono a notarono preoccupanti lesioni in alcuni fabbricati del rione San Pietro. Purtroppo, quei segni premonitori non vennero presi nella dovuta considerazione. Chissà, se si fosse intervenuti sollecitamente, forse oggi non saremmo qui a ricordare la grande frana del 1956.
Lino Spadaccini