Dalla cantina di casa passando per il palco dell’Ariston e l’Australia fino ad arrivare ad un suo personalissimo studio. Tre luoghi molto differenti tra loro ma che delimitano spazialmente il percorso musicale di Fabio Tumini. Si parte proprio dalla cantina. “Mio padre suonava musica folk, da pianobar, con alcuni amici. Io, da ragazzino, ero lì che osservano le mani del tastierista che si muovevano veloci e poi, quando tornavo su a casa, provavo a ripetere quei movimenti sulla tastiera”. Una passione per la musica che “mi attraeva più della scuola calcio. Nella nostra zona, specie negli anni ’90, o facevi scuola calcio o andavi a lezione di musica. Io ho provato con il calcio ma ad allenamento invece di correre dietro al pallone facevo i castelli di sabbia così il mister mi disse che forse non era lo sport giusto per me. Ho segnato un solo gol, quando mio cugino mi passò la palla davanti alla porta in allenamento. E così ho lasciato perdere il calcio”. Dalla tastiera alla chitarra passando per la batteria. “Nelle autogestioni al Liceo Scientifico iniziai a suonare in uno di quei gruppi che si formano spontaneamente sui banchi di scuola. Era un gruppo un po’ sovversivo, i professori non ci potevano vedere ma agli altri studenti piaceva (per i liceali di fine anni ’90 molti dei brani suonati da quella band restano storici, nda).
Proprio con quella band ho iniziato con la chitarra, ero più vicino al pubblico. E poi con la batteria c’erano troppi pezzi da montare e smontare ogni volta. La chitarra è molto più easy, attacchi il cavo all’amplificatore e sei a posto. Da lì è iniziato quello che io definisco un amore e odio”. Il rapporto di Fabio con le sei corde, oggi suo strumento principale (anche se continua a suonare basso, tastiere e batteria quando capita), è più che altro una “passione, anche perchè non mi sono mai definito un musicista, uno strumentista, uno bravissimo tecnicamente. Mi sono sempre visto come autore di canzoni. Ho fatto delle lezioni con amici, ma non ho approfondito più di tanto. Ho sempre visto lo strumento musicale come uno strumento, non un fine”. La crescita musicale per lui è passata più che altro dal “confronto con tantissimi musicisti, ho sempre suonato, ovunque ero, ho assorbito culture diverse e questo ti fortifica parecchio. I miei musicisti preferiti sono quelli che ci mettono delle personalità piuttosto che quelli bravissimi tecnicamente”. Da San Salvo il passaggio a Roma, dove ha iniziato ad esplorare la sua passione per il suono nel corso come sound engineering. Finchè non è arrivata una chiamata. “Mi telefonò Giuseppe Martinelli, lo conoscevo già perchè era anche lui sansalvese, ci eravamo incrociati in diverse situazioni. Mi disse che la sua band (che di lì a poco prese il nome di La Differenza) cercava un chitarrista per un progetto che era nell’interesse di una major. A me il pop non interessava proprio, sono cresciuto con punk e rock. Però sono convinto che uno debba sempre mettersi in discussione e così accettai la proposta. Andai nello studio di Jakka e registrai 5-6 canzoni tra cui quella che poi divenne Che farò. Facendola breve arrivò il contratto con la Sony e poi nella sezione giovani a Sanremo (nel 2005) [il video]. Il resto lo sapete”. Un’esperienza che tanti musicisti sognano di vivere. “La rifarei domani mattina, con i suoi pro ed i suoi contro. Lì incontri personaggi della musica, fotografi, giornalisti, addetti del settore, giovani imprenditori. Mi è rimasto impresso Toto Cutugno, una persona umilissima, ci metteva in guardia dall’ambiente. E in effetti ci sono tanti opportunisti che girano da quelle parti e te ne accorgi”.
Il pop non era il suo mondo “anche se, avendo lavorato anche 6 anni a Radio Delta 1 come fonico e occupandomi di messa in onda e postproduzione, il pop mi era come con il fiato sul collo, quindi era inevitabile venirci a contatto”. Però ha firmato molte delle canzoni del primo album della band (Preso!). “Sì, ma su quelle meno radiofoniche”. Però ce n’è una che gli piace ancora molto. “Disincantatamente. È una bella scrittura a due mani, la strofa mia, il ritornello di Fabio”. Non molto tempo dopo quel Sanremo Fabio lasciò la band. “Avevamo visioni diverse della musica, quindi ho preferito percorrere un’altra strada”. Una strada che lo ha portato dall’altra parte del mondo. “Il mio amico Andrea Di Francesco mi disse che stava partendo e mi propose di andare con lui. Avrei dovuto pensarci qualche giorno ma dopo neanche 24 gli dissi di sì e una settimana dopo ero in Australia alla guida di un trattore di quelli con le ruote gigantesche. Lì sono entrato in contatto con un altro continente, vicino alla natura, fuori dalla pressione della vita di paese. Dopo un mese avevo un’altra band e suonavamo tantissimo, ho fatto tournèe nelle miniere, prendevamo l’areo, venivamo pagati molto bene”. Tanta attività come musicista e anche dei lavoretti di altro genere, con 4 città visitate e poi, dopo un anno, il rientro in Italia. “Sono tornato e mi chiedevo quanto sarei riuscito a resistere. Mi sono guardato attorno c’era il deserto. Allora ho deciso di riprendere con ciò che sapevo fare. Ho messo in piedi questo studio e faccio sempre tutti i lavori che capitano. Al momento lavoro nella Primo”. Con tanti “bagagli” musicali per lui arriva il momento di un nuovo progetto. “Io e Angelo (Ciavatta) ci conosciamo da tantissimi anni, ci siamo sempre incrociati in tanti concerti dove si suonava con impianti scassati e del buon vino. Anche se lui ha un percorso più legato al metal e io sono molto più solare, ci prendiamo molto a livello di testa. Tra tutti i musicisti con cui ho suonato è uno dei migliori, ha davvero una marcia in più. Dove non arrivo io c’è lui, ci compensiamo tanto. Ed è un interprete pazzesco per le mie canzoni, qualunque follia mi viene in mente lui va davanti al microfono e la traduce in canto”. Sono loro due le colonne dei Nectarines [il video di Blind], band che si prepara all’uscita del secondo album, di cui Fabio ci mostra in anteprima la tracklist. “Sarà molto diverso dal primo lavoro. La novità è che sarà in italiano. E, come sempre, mischiamo davvero tutti gli stili”.
Del lavoro in studio di registrazione se ne sta occupando, naturalmente, lui. Oltre alla scrittura di canzoni (e alla loro esecuzione) c’è anche questo approccio da “tecnico” da parte di Fabio. Un aspetto a cui lui tiene molto. “Oggi con la tecnologia che c’è non serve più un super-studio per fare un progetto, basta avere una scheda audio, un software e si può registrare. E qui casca l’asino. Magari per ottenere una demo, se sei bravo e hai un buon orecchio, riesci a cavartela così. Ma arrivi a un punto in cui non puoi andare avanti. Il computer è un registratore. Il lavoro di uno studio è molto diverso. Il suono, per essere reso bene, deve attraversare una catena audio ripresa-processo-conversione-registrazione. È normale che se compari un brano registrato in studio ad uno fatto in casa, suonano diversamente. Molti, invece, pensano che con una scheda audio hanno risolto tutti i loro problemi”. L’animo dell’artista viene fuori anche nel lavoro di produzione. “È comunque un lavoro metafisico, come la scrittura. Entri in una situazione in cui stai comunque creando. Il processo creativo può essere sia su software che su carta”. Quando i brani da registrare sono i propri è certamente un processo naturale. Ma il lavoro che lo impegna, oggi, è anche con altre band e musicisti. “L’attenzione è la stessa. Il creare musica è quello che mi interessa di più”. La sua visione delle cose è chiara. “Diventare famoso? Non mi interessa. Mi piace la fase creativa, stare in studio (perciò l’ho costruito), fare continuamente degli esperimenti con i suoni, i microfoni. Tutto il resto, apparire, avere della notorietà, non mi interessa per niente”. Il secondo e fondamentale punto è quello del rapporto con la gente. “Suonare dal vivo è il secondo aspetto che mi piace, mettersi sul furgone e girare. I nostri concerti sono anche molto coinvolgenti, siamo noi i primi a divertirci. Chi viene a sentirti, magari dopo una giornata di lavoro, deve stare bene, possibilmente ascoltando della buona musica”.
Testo di Giuseppe Ritucci
Immagini di Costanzo D’Angelo
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