Partiamo dai dati, sono quelli dell’Associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, Svi.Mez. Il suo compito è quello di promuovere lo studio delle condizioni economiche del Meridione d’Italia e proporre programmi per la creazione e lo sviluppo di attività industriali.
Il rapporto 2018 della Svi.Mez., tra gli altri, mette in evidenza un fatto: negli ultimi sedici anni, oltre 1.800.000 residenti nel Sud sono emigrati; di questi 900.000 sono giovani.
Non sembra essere una notizia. Si sa: non c’è lavoro, poche le infrastrutture, lentissimi, se non inesistenti, gli ammodernamenti di quelle presenti, scarsi gli investimenti privati, pochi i servizi. L’ormai incancrenita realtà, mostra un territorio che va impoverendosi sempre più, che appare votato al degrado e, quindi, all’abbandono persino da parte di chi ha voglia di lavorare ma che, per farlo, emigra.
Si conferma, negli anni e nei decenni, una emergenza che non è più neanche tale per la sua epocale continuità, un fatto endemico: nel Sud Italia, è così!
Eppure, non è stato sempre così ed è la Storia a dircelo. Prima dell’Unità d’Italia, 1861, prima di Garibaldi, il Regno delle Due Sicilie mostrava di avere grande ricchezza pubblica e minori debiti rispetto al Nord. Nel primo periodo dell’Unità d’Italia, si verificò un grande “esodo di ricchezza dal Sud al Nord” (cfr. “Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1897” – F.S. Nitti). In definitiva, fu il processo di unificazione e le politiche attuate successivamente che dettero inizio al divario tra Nord e Sud, a tutto vantaggio del Nord. Ne conseguì il fenomeno migratorio. A partire dall’inizio del 1900, è al Nord la più alta concentrazione di industrie e l’occupazione di Italiani provenienti dal Meridione aumentò costantemente.
Dopo un secolo di progresso e di enormi mutamenti geoeconomici, gli Italiani del Sud fanno ancora i conti con quegli anni di storia, convincendosi, fatalmente, che altro non ci sia da fare che continuare ad emigrare. L’essere stati vittime dello Stato unitario ha fatto di loro, in una sorta di persuasione collettiva, dei vittimisti, con tutto quel che ne consegue in termini di scarsa ma diffusa considerazione nazionale: i meridionali sono piagnoni, non hanno voglia di lavorare, sono approfittatori, se non, addirittura, delinquenti. L’epopea dell’emigrante meridionale che lascia gli affetti, la mamma, la fidanzata, i luoghi del cuore, s’impadronisce, per anni, delle vite degli Italiani del Sud, fino ai nostri giorni. “Si dice che io sia così ed allora sì, sono così e mi piace pure esserlo”, una sorta di ideologismo nel quale ci si adagia, un’autocommiserazione che crea ancora più separatezze e che genera ancora più danni, in termini economici e sociali, a quella parte d’Italia che così appare, ma che così realmente diventa, ineluttabilmente condannata.
Il Nord Italia è realmente più ricco, più evoluto e migliore sotto molti aspetti ma questo non è dovuto ad una volontà divina! Il merito è dei suoi abitanti, anche di quelli emigrati dal Sud; l’essere migliore è dovuto alla loro voglia di fare e di combattere su più fronti. Anche se si vuol considerare economicamente più favorevole l’ambiente in cui vivono, sono loro stessi che contribuiscono a migliorarlo costantemente. Si vuol dire che, a differenza dell’inizio ‘900, le responsabilità del divario possono non essere determinate da scelte politiche ma dalla fatalistica considerazione che molti, nel meridione, hanno di loro stessi.
Il nemico più grande, per i giovani Italiani del Sud, è lo spirito conservativo che alimenta il loro “essere così”, tradendo, al contempo, la Tradizione pre-unitaria che vedeva il Sud evoluto e ricco. In tempi di assistenzialismo e giustificazionismo si perde il coraggio, il gusto della lotta anche nei confronti di chi vuole che, per egoismi politici o economici, tutto rimanga così. Ed allora, alimentare, soprattutto nei giovani, la forza culturale che permetta al Meridione d’Italia di riappropiarsi di una nuova identità su cui basare il riscatto economico e sociale dovrebbe essere il vero impegno dell’attuale classe politica e di quella attiva nell’ecomomia.
Il nuovo civismo del Sud non nasce dall’assistenzialismo o dal protezionismo. La politica che diventa Istituzione arriva persino a strumentalizzare la realtà collettiva e dei singoli. Il nuovo civismo scaturisce dalla pervicace volontà di restare dove si è nati, magari di tornarci dopo aver vissuto esperienze in altri luoghi, per fare impresa, per valorizzare tutto ciò che il Territorio offre, per utilizzare tutte le risorse residue prima che altri se ne approprino, affrontando la lotta nei confronti di chi, con un tozzo di pane ed una pietosa carezza, pensa di sedare i naturali istinti a migliorsi.
Per i giovani, restare o tornare non è una resa al cospetto del mondo più evoluto. La resa è accettare il sistema ruffiano dei potenti, vivere borderline con il malaffare, accettare il reddito assistito e, poi, cosa più infausta e fatale, non esserci e non partecipare.