‘Le nostre truppe hanno occupato Trento e sono sbarcate a Trieste. Il tricolore italiano sventola sul Castello del Buon Consiglio e sulla torre di S. Giusto. Punte di cavalleria sono entrate in Udine”. Così il Bollettino di guerra n. 1267, emanato dal Comando supremo del Regio Esercito italiano, alle ore 20 del 3 novembre 1918, ed a firma del Generale Armando Diaz.
Parole che suonano lontane in tempi di pacifismo, modernismo ed europeismo. A 100 anni dalla fine della “Grande guerra”, la considerazione, in Italia, di quello che oggi viene celebrato come il “Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate” assume profili diversi da quelli che, per più anni, avevano inorgoglito un popolo unito in nome della Vittoria, della Nazione, della Patria. Non sono pochi ad essere pervasi da un senso di fastidio per un’occasione di commemorazione considerata inutile, con rappresentanze politiche che si sforzano di ricordare, con malcelato distacco, i tanti Italiani morti e le tante vittime tra i nemici.
Già i movimenti giovanili del ’68, quelli estremistici o del cattolicesimo dissidente avevano contestato le celebrazioni, persino istigando i militari alla disobbedienza. L’artificiosa lettura della Storia che, oggi, ci si affatica a reinterpretare induce a considerare i soldati di allora, quelli di Vittorio Veneto, quali poveracci costretti a morire da comandanti sanguinari, desiderosi di medaglie. Addirittura e tutt’al più, utilizzando la chiave moderna dell’opportunismo politico, si arriva a celebrare, con ipocrite contorsioni, i caduti della “Grande guerra” quali primi martiri dell’unione europea contro i nazionalismi.
L’interpretazione della Storia, il suo asservimento ai temi del giorno e di una quotidianità ben lontana da quella degli anni inizio ‘900, a distanza di cento anni, porta a strumentalizzare fatti certo drammatici ma vissuti, allora, con animo e cultura ben diversi da quelli odierni. La Storia non può subire riletture manierate alla luce delle attuali contingenze, esprimendo persino giudizi di merito fuorvianti.
Esercitarsi a farlo, così aprendo il fronte della guerra delle parole, appare persino stucchevole nel momento in cui ci si affanna ad individuare una netta demarcazione tra senso della Nazione ed amor di Patria. Come si stabilisce, tra essi, il confine? Chi decide che l’amor di Patria è cosa buona ed il senso della Nazione invece no? Chi stabilisce che l’uno non possa e, addirittura, non debba ricomprendere l’altro?
Ogni Nazione è tale per il percorso della propria Storia, quel che dovrebbe preoccupare è la mancanza di senso dell’appartenenza che sempre più si fa strada nei cambi generazionali, sono i colpevoli distinguo artatamente posti per impedire che un popolo nutra il proprio senso di Comunità.
Il significato del IV Novembre è alto, in questa data si celebra l’unità di una Nazione prima unita solo burocraticamente in uno Stato. In quella guerra vinta, gli Italiani si ritrovarono tutti nel Valore dell’unità e, finalmente, sentirono propria l’Italia, riconoscendosi nella definizione e reintegrazione dei suoi confini. Coloro che hanno permesso tutto questo hanno il merito di aver impresso alla Storia la propria impronta, calco, cent’anni dopo, identico al nostro. E’ questo che ci fa Popolo.