La musica a volte può essere parte di uno scenario più grande e complesso. Uno scenario che si tramuta in esperienza a tutto tondo, concettualmente e visivamente. Chi conosce bene Caparezza sa per certo che un suo concerto vuol dire esattamente questo: vivere un’esperienza che si rinnova di tour in tour e aggiunge un tassello in più alla visione di sé stessi e del mondo che ci circonda.
Anche Prisoner 709 s’inscrive in una narrazione multipla che parte dall’esperienza personale di Michele Salvemini per assumere una dimensione corale. La settima fatica discografica del cantautore pugliese è un viaggio nella prigione mentale dello stesso artista, nella malattia che l’ha colpito con l’acufene poco tempo fa e nell’incertezza che si ritrova a sperimentale a livello identitario, tra le 7 lettere che compongono il suo nome di battesimo e le 9 del suo nome d’arte.
Ecco che quindi il live di Vasto diventa espressione di un concetto di difficile definizione, la libertà, il leitmotiv dell’intera serata. È questo elemento a costituire il filo narrativo applicabile all’interna discografia da cui Caparezza ha attinto ampiamente giungendo ad eseguire ben 23 brani. La libertà è innanzitutto l’obiettivo primario da cui scaturisce l’evasione dalla prigione dell’ultimo album che, nella seconda parte del tour, si propone come “sequel del tour nei palazzetti. Prima eravamo schiavi del nostro carcere mentale, sottoposti alle angherie dei corvi antropomorfi. Ora i corvi sono inchiodati e siamo finalmente liberi.”
Ma una volta che ne siamo fuori la domanda sorge spontanea: cos’è la libertà? “Libertà è un concetto utopico che si trasforma in una prigione. Siamo schiavi del nostro corpo, del nostro ruolo che ci siamo imposti e che ci impongono” dice Caparezza rivolgendosi a Dante subito dopo l’esecuzione di La mia parte intollerante. La libertà è dunque un paradosso su cui abbiamo avuto l’illusione di combattere oggi come nel 1968 ma alla fine ci ritroviamo in una condizione sociale invariata, come se fossimo “nel 1868”. Sono in queste occasioni, in questi messaggi tragici e spietati che partono inevitabilmente le canzoni dal significato e dal sound più dissacrante come, per l’appunto, La rivoluzione del sessintutto.
Non si può però lasciare il pubblico con questa sensazione di disillusione. In fondo, la libertà è soggettiva, almeno in alcuni casi. In quello di Caparezza, per esempio, Fuori dal tunnel rappresenta “la canzone che mi ha dato la libertà di fare ciò che mi piace” e senza dubbio su questo aspetto sarà stato influenzato da colui che reputa l’unico uomo veramente libero: Vincent van Gogh con la canzone a lui dedicata che chiude il concerto.
“Van Gogh non ha mai venduto un quadro ma ha sempre continuato a seguire la sua libertà artistica. Era talmente libero che per le persone accanto a lui era pazzo. Talmente pazzo che è stato alla fine rinchiuso in un manicomio, ma ha continuato a dipingere. Non poteva uscire dalla sua stanza ma restava lì a dipingere quadri di altri. In La Ronda dei Carcerati di Gustave Doré si inserisce nel cerchio e al posto dei tre secondini raffigura tre borghesi, persone indifferenti a tutto. Da una parte lui e dall’altra persone superficiali: chi è il pazzo?”
Caparezza ci ha regalato un live sensazionale anche dal punto di vista scenico. Quattro ballerini, due coriste, e svariate sculture di cartapesta ad opera di Deni Bianco come la lavatrice con le ali d’angelo su Confusianesimo o la ruota da criceto su Goodbye Malinconia. Di fronte a lui un pubblico in visibilio, che ha praticamente cantato nella totalità del concerto e dei presenti tutte le canzoni a memoria. Ogni brano – oltre a spaziare tra rock, musica popolare pugliese, sprazzi di metal ed elettronica, senza dimenticare la base hip hop – è stato non solo suonato ma anche interpretato da tutti i membri della crew Caparezza in una sorta di spettacolo teatrale.
Lo Stadio Aragona è stato invaso da un’energia trascinante che rimbalzava tra il palco e le parterre. Una festa corale che non ha risparmiato Caparezza da qualche sorriso compiaciuto. Di fronte a tutto questo forse capiamo che in un certo senso aveva ragione Gaber quando sosteneva che “la libertà è partecipazione”.
Alessandro Leone
foto di Giuseppe Ritucci