Suonare live nella maniera più genuina, lasciare che le note fluiscano liberamente e approfondire la propria passione senza mai ripetersi ma restando pur sempre coerenti con se stessi. Questo è in breve il mantra di una delle band più apprezzate della moderna scena musicale: i Bud Spencer Blues Explosion. Già dal nome si richiama alla corposità e aggressività del suono in un’esplosione di influenze perfettamente amalgamate che trovano nell’eleganza del blues un punto fermo districandosi attraverso un’attitudine punk, la cattiveria grunge, i riff hard rock e le ballate indie. Ogni concerto dei BSBE è un’esperienza nel verso senso del termine e quest’anno il pubblico del Siren Fest 2018 a Vasto non correrà il rischio, tanto per citare una loro canzone di “addormentarsi all’inizio dello show”.
Dietro alla loro musica ci sono due musicisti, Adriano Viterbini e Cesare Petulicchio, che, oltre a condividere un’amicizia, si sono convertiti con il passare degli anni in due tra i più richiesti session man della penisola. In viaggio tra artisti e generi diversi – come Motta, Emma Marrone, Nic Cester, Bombino e moltissimi altri – alla separazione e alle carriere individuali segue sempre il rincontro nello stesso posto: una sala prove tappezzata di poster dove la jam session mira ad individuare riff o groove utilizzabili per il successivo sorprendente lavoro. Dopo i primi tre album (quattro se consideriamo l’ep autoprodotto Happy), quest’anno i Bud Spencer Blues Explosion giungono a un ulteriore livello di maturazione artistica con Vivi Muori Blues Ripeti di cui si avrà modo di apprezzare la potenza di canzoni come Allacci e sleghi dal vivo senza dimenticare alcuni must delle loro esibizioni come la più “vecchia” Giocattoli o la cover di Hey boy, hey girl dei Chemical Brothers. Per offrire il massimo rendimento e restare fedeli alle sonorità dell’ultima fatica discografica, la band sarà accompagnata da Francesco Pacenza e Tiziano Russo per arricchire ancora di più il sound con una formazione a quattro. Il duo, l’idea da cui è partito tutto, avrà ugualmente il suo necessario spazio.
Di tutto questo e di molto altro abbiamo parlato proprio con Adriano Viterbini, un chitarrista duttile e talentuoso ma soprattutto una persona umile, disponibile e gentile che ancora riesce ad emozionarsi al cospetto dei complimenti che lo sommergono dopo ogni concerto. Complimenti che si tramutano in energia positiva, com’è successo durante la telefonata del 5 luglio, poco prima della tappa del tour a Cuneo. Ora lasciamo parlare lui e non ci dimentichiamo di andare al loro concerto, al Siren Fest (che ricordiamo si svolgerà dal 26 al 29 luglio).
Che effetto vi fa ritrovarvi sullo stesso palco di Mogwai, The National, Verdena, James Blake, Slowdive, PiL e via dicendo?
Sarà una bellissima esperienza. Al Siren abbiamo anche degli amici e questo ci dà un’ulteriore spinta. Poi, oltretutto, Vasto è una città che si presta a questo festival, un posto molto duttile.
Quindi ci siete già stati?
Io ci ho suonato nel 2014, era un’esibizione in un giardino (Giardini d’Avalos, ndr) con alle spalle il mare in cui ho suonato dei miei brani acustici. Sarò contentissimo di tornare.
Il carattere genuino e istintivo della vostra musica deriva probabilmente dai background tuo e di Cesare. Com’è nata la vostra amicizia?
Io sono del ’79 e lui dell’80 quindi avevamo più o meno 20 anni alla fine dei ’90. Siamo cresciuti con il grunge e i gruppi di quel genere, tra cui i Nirvana, sono stati i nostri punti di riferimento quando eravamo ragazzini. Ovviamente la musica rock è un ambito confortevole per noi ma, essendo curiosi, ci piacciono tante cose della musica, del passato e del presente. La nostra matrice è stata quella di suonare sempre perché siamo amanti del suonare. Ognuno di noi ha mille progetti, ma forse più che progetti delle intuizioni che ci portano a spaziare molto. Questo diventa contagioso quando suoni e magari la forte passione per la musica è proprio quello che ci dà una marcia in più.
Io e Cesare ci siamo conosciuti nel 2005-6. Ero appena tornato dagli Stati Uniti per un compleanno a New York. In quell’occasione vidi i Black Keys per la prima volta ed io, che ascoltavo blues fin da ragazzino, cominciai a pensare alla possibilità di declinare quel tipo di musica con qualcosa di più attuale. L’idea del duo mi piacque così tanto che quando tornai mi misi a cercare dei partner che potessero essere interessati. All’epoca frequentavo un giro d’amici tra cui c’era pure Cesare. Mi sembrava quello più adatto, perché poi aveva anche quell’aria da Kurt Cobain (ride, ndr).
Avete aggiunto due nuovi membri alla nuova formazione live. In alcune canzoni si sente molto la presenza dei bonghi, addirittura su “Come il sole” ho sentito del mellotron, senza considerare anche gli apporti delle sonorità del Fender Rhodes. Quanto i Bud Spencer Blues Explosion riflettono le vostre esperienze?
Grande, hai sentito tutto. Sicuramente i pezzi del nuovo disco non verranno traditi dato che viene suonato così com’è con, a mio parere, una spinta in più perché dal vivo si cerca sempre di superare il lavoro in studio. Poi chiaramente c’è la parte dedicata ai brani in duo dove il concerto decolla ancora di più e c’è un’affinità particolare.
Sicuramente il fatto che le nostre esperienze ci abbiano arricchito è fuor di dubbio. Se non avessimo questa evoluzione quando suoniamo non staremmo a fare neanche un nuovo disco. La nostra prerogativa è quella di cercare di evolvere sempre nella nostra curiosità. Se dovessimo ripeterci, come giochiamo con il titolo del nuovo disco (Vivi muori blues ripeti, ndr), sarebbe un piccolo fallimento per noi.
Con gli album registrati in presa diretta cercate di offrire sempre un’esperienza il più possibile vicino all’approccio che avete nei live. Questi però sono un’occasione per sperimentare e lasciare spazio anche all’artista con i suoi assoli. La dimensione del concerto dal vivo è quella più importante per voi?
Ma guarda, noi proviamo un enorme piacere nel registrare come vogliamo e grande soddisfazione nel suonare dal vivo. Sono mondi diversi che ci piacciono ugualmente. È ovvio che dal vivo prendiamo veramente fuoco ed esce fuori un’altra parte di me. Negli album invece succede qualcosa che si allontana un po’ da me. Io nella vita sono una persona molto disordinata mentre in studio cerco sempre di ottenere il risultato che ho nella testa. Poi ovviamente l’aspetto live si ritrova nella presa diretta.
Oramai sei uno dei session man più richiesti. Quale ambiente preferisci tra palazzetti, club, piazze e via dicendo?
Mi piace suonare nei posti grandi perché mi emoziona molto, nei posti più piccoli c’è invece la tranquillità che in altre occasioni è difficile trovare. Ma in realtà a me piace suonare e basta, pure per strada, quindi non ho una preferenza onestamente. Una preferenza ce l’ho con chi mi piace suonare. Per il luogo non soffro particolari problematiche.
Indipendentemente dal genere, dato che hai spaziato molto
I side project nascono quasi per necessità, non ci penso troppo. Sono cose che vengono naturalmente, sono esperimenti che a volte diventano qualcosa di più. Se lo sento, lo devo fare. L’importante, secondo me, è fare sempre qualcosa di qualità.
Nonostante siate un gruppo con un’impronta personale le influenze si possono sentire e risultano ben amalgamate. Un approccio un po’ punk durante i live è accompagnato dalla cattiveria del grunge e dai riff hard rock. Nella vostra discografia ci sono riff alla Deep Purple, Led Zeppelin ma anche tributi a band come Rage Against the Machine, Area e ballad più indie. Si può dire che l’esplosione, oltre ad essere un rimando a Jon Spencer, sia proprio la contaminazione dell’eleganza blues con questi generi?
Sì, abbiamo sempre miscelato. L’elemento comune è stato quello di voler fare qualità per regalare un prodotto senza tempo. Perlomeno la premessa per me deve essere quella.
In un’intervista dicevi di aver aggiunto “delle cose” di album in album: quali sarebbero?
Il primo disco (omonimo) era una summa di tutto quello che avevamo ascoltato e scritto, era il punto di arrivo di due 26enni. Il secondo disco (Do It) nasceva dalla soddisfazione per il primo e dalla voglia di dimostrare che potevamo fare ancora di più. Avevamo deciso di impostarlo un po’ sulla forma che avevamo dal vivo anche per cercare di conoscerci meglio. Con il terzo (BSB3) abbiamo tentato per la prima volta di ragionare di più sul suono, una sorta di compresso tra chi eravamo dal vivo e chi avremmo voluto essere nel futuro. Con l’ultimo album abbiamo invece cercato di fare un lavoro meno istintivo ma più ragionato e, in un certo senso, più morbido, come se fosse un disco da viaggio.
C’è un album a cui sei particolarmente affezionato?
Sono più affezionato all’ultimo, mi piace molto. Gli altri li ho vissuti molto velocemente, ho ancora bisogno di tempo per sviluppare una visione “nostalgica”. Ti dico che l’ultimo, per come l’abbiamo gestito e per come è nato, mi sembra il più scorrevole.
E come è nato?
Ci siamo visti e abbiamo cominciato a registrare qualcosa. Quando ci veniva qualche idea buona la risistemavamo, quelle non buone le cestinavamo. Dopo un po’ ci siamo convinti di aver un buon materiale da far ascoltare. Abbiamo coinvolto Marco Fasolo e lui ha ascoltato tutto e ha pensato che la nostra anima di questo periodo fosse più soul e sognante. Quindi ha lavorato su un album contemporaneo ma non nell’accezione mainstream. È molto fresco e quello dev’essere l’obiettivo anche perché con il rock ci vuole poco ad entrare nella musica da museo, cosa che non mi è mai interessata. Se fossimo stati altri magari avremmo fatto un disco blues classico ma non era questo il caso.
Siete continuamente in giro. Tu con Bombino, Nic Cester, Emma Marrone, Cesare con Motta. Inoltre, ci sono i progetti solisti. Come fate a trovare il tempo per comporre? Usando una vostra citazione da “Good morning Mike” direi “rimango impressionato per i modi in cui trasformate la vostra fantasia”.
Funziona così: ci incontriamo in sala e buttiamo già delle idee. Di solito io arrivo sempre con qualcosa che preparo prima a casa. Poi “jammiamo” un po’ e magari inizio a cantare. È un lavoro che si affina lentamente. Alcune cose nascono molto naturalmente, altre dalle jam perché ci accorgiamo che c’è un groove o un giro di chitarra buono. È una modalità abbastanza standard.
Perché l’analogico?
Semplicemente perché Marco Fasolo lo usa come sua modalità di registrazione. Se fossimo andati in un altro studio avremmo registrato in un altro modo. Per fortuna riusciamo ad ottenere il nostro suono al di là del mezzo. Se hai gente brava che ci lavora il risultato si vede.
Quindi non è una preferenza
È un esperimento. Ovviamente si hanno dei benefici a livello di suono ma è più una questione di immediatezza. Sul nastro bisogna suonare insieme, non bisogna sbagliarsi e quindi devi arrivare alle registrazioni pronto. Questo ha diversi vantaggi: puoi cogliere le casualità, la spontaneità di certe cose ed eviti di essere chi non sei – perché non registri una traccia finché non ti viene bene – conservando poi le piccole imperfezioni che ti rendono te stesso.
Si parla molto della vostra musicalità ma poco dei testi. La voce effettata contribuisce all’atmosfera integrandosi con la distorsione della chitarra. Forse in studio ha un ruolo preponderante mentre nei live gli assoli tornano nuovamente protagonisti. Quanto lavorate effettivamente su questo aspetto?
La parte dei testi è sempre la più sofferta. Non siamo mai stati dei grandi scrittori di racconti. Per questo ci avvaliamo di collaboratori importanti come Davide Toffolo, Umberto Maria Giardini, Andrea degli Otto Ohm di cui eravamo e siamo tuttora dei fan del loro modo di scrivere e ci hanno aiutato a rendere l’album più completo. Non ci vedo niente di male nel farci aiutare da chi è più “magico” in questo. E poi ci sembrava giusto produrre un disco che avesse la stessa qualità per la musica e i testi.
Il 17 luglio aprirete i Jet a Londra. Negli anni avete avuto particolare riscontro all’estero?
Non ce n’è stato tanto, siamo un gruppo italiano e suoniamo in Italia principalmente. Però, quando ci capita, all’estero provochiamo sempre un grande effetto forse perché suoniamo in maniera molto istintiva e libera. Credo che questo venga percepito un po’ ovunque. All’estero viene privilegiata la nostra attitudine anche se non capiscono i testi ma questo poco importa.
Spesso molte band romane finiscono per rinchiudersi nel loro contesto ristretto. Avete trovato difficoltà nel raggiungere il livello attuale? Quale consiglio dai a chi si scoraggia?
Ne abbiamo avute tante, infatti i primi risultati sono arrivati a 27-28 anni. Per esempio, già a 23 ero più o meno un professionista, volevo fare quello nella vita. Gli altri miei gruppi non erano riusciti a sfondare. Con i Bud Spencer le cose hanno cominciato a girare e sapevo di più cosa volessi e qual era il veicolo espressivo più congeniale. Mi sono semplicemente chiesto: “Che cosa mi riesce meglio?”. Abbiamo fatto dei contest (tra cui quello del Primo Maggio, ndr), le cose sono andate bene e abbiamo cominciato a registrare e a suonare di fronte alla gente.
Un consiglio che do a chi si scoraggia? Eh, chi si scoraggia è perduto. Nella musica ci vuole pratica pratica pratica e pratica, bisogna fare il più possibile perché dietro l’angolo c’è sempre qualcuno migliore di te. Non lo dico perché la musica è una gara però chi si illude che chi abbia successo sia solo un miracolato si sbaglia. Dietro c’è tanto sacrificio e passione. Sarà sempre così ed è giusto che lo sia.
Siete dei castelli romani, qui vicino. Questa volta suonerete di fronte al mare. Qual è la location che tra tutte hai preferito?
Mi ricordo di aver suonato una volta in una montagna del bergamasco. Fu molto suggestivo per quell’orizzonte vasto con una diga in lontananza. Anche a Vasto fu una cornice davvero inusuale, particolare e adesso poter suonare su un palco ancora più grande non è poco.
Quel colpo d’occhio ti ispirerà
Più che ispirazione è consapevolezza di suonare in un posto importante. Io vengo da Castel Gandolfo e da noi si dice “Quando vai a Roma ti devi vestire bene” perché è un posto dove passa gente importante. Per questo cerco sempre di onorare e rispettare il luogo che mi ospita. Non ti dico che mi vestirò bene, per quello non ci sono mai riuscito (ride, ndr) ma suonerò sempre come se fosse l’ultima volta perché è giusto per chi paga un biglietto, per chi ci ascolta.
Progetti futuri?
Vorrei andare negli Stati Uniti per un po’. Ogni tanto ci vado, ho degli amici e voglio suonarci. Poi magari qualche concertino in strada per Roma con un mio amico. Inoltre, ho un po’ di progetti top secret, molto fighi ma su cui non posso dire niente. Vedrai!
Alessandro Leone