Se parlo di “Grande Fratello”, sono ragionevolmente certo che nove persone su dieci penseranno ad una villa dove ragazzotti e ragazzotte fanno sfoggio di indecenza in diretta televisiva per ottenere una qualche notorietà, più che a George Orwell e al suo romanzo – 1984 – che denunciava i pericoli di un mondo fatto di controllo e di sottomissione completa della popolazione.
Figurarsi, poi, se mi mettessi a citare l’altro capolavoro di Orwell – Animal Farm – che rappresenta la metafora più graffiante sul potere e sul suo seducente, ineluttabile, trasformismo!
E invece, è proprio su questo romanzo che vorrei riflettere.
La trama è piuttosto semplice: in una fattoria, gli animali decidono un bel giorno di ribellarsi al loro padrone umano, poiché ritengono che egli li abbia sfruttati abbastanza ed abbia brigato con i vicini a spese proprio degli animali; il fattore viene messo in fuga e tutti gli animali della fattoria si organizzano in una sorta di “comune” che, nelle intenzioni iniziali, deve rappresentare un punto di svolta partecipativo, democratico, egualitario della fattoria divenuta ormai loro. Il tutto viene sintetizzato in un motto che alcuni scrivono bene in vista: “tutti gli animali sono uguali”.
A poco a poco, però, passata la sbornia libertaria iniziale, di fronte alle crescenti difficoltà di gestire una organizzazione complessa come quella della fattoria, le facoltà decisionali vengono gradualmente accentrate dai maiali e, in particolare, dal loro leader che si fa chiamare “Napoleone”.
Passo dopo passo, i maiali e Napoleone in primis si prendono fette sempre più ampie di potere, con la giustificazione che questo sia necessario per far tornare florida la fattoria; questa fase di accentramento viene sintetizzata in una revisione del motto iniziale, che diventa: “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni lo sono più degli altri”.
Nella scena finale, al culmine di questa escalation di accentramento, ormai dispotico, Napoleone si veste proprio come un umano e siede a cena con i vicini delle fattorie circostanti, con i quali inizia ad intrattenere accordi di affari, esattamente come il fattore originario era stato accusato di fare.
Molte sono le analogie con i nostri giorni: l’uso delle leve della “libertà” e della “giustizia” per sostenere il consenso iniziale, l’emergenza che giustifica i mezzi, la “necessità” che porta a scelte “responsabili” ed accentratrici.
Quale è stato l’errore degli animali della fattoria di Orwell? Credere che qualcuno potesse accollarsi l’onere di cambiare le cose senza che questo comportasse alcuna controindicazione per la comunità. C’è sempre un prezzo da pagare: da questa regola non si sfugge.
“Il forte si mesce col vinto nemico, / col novo signore rimane l’antico; / l’un popolo e l’altro sul collo vi sta. / Dividono i servi, dividon gli armenti; / si posano insieme sui campi cruenti / d’un volgo disperso che nome non ha”.
Ce lo scrisse Manzoni, ce lo rammentò Orwell: quando lo impareremo anche noi?