Ero stato scortato in una anticamera lunga e stretta, con numerose sedie di mogano appoggiate a pareti bianche immacolate, le quali facevano risaltare ancora di più il colore scuro del legno, che nel contrasto pareva nero come la pece.
Ad una yarda dal soffitto, ad intervalli regolari, le pareti erano ornate da ritratti di uomini vestiti con abiti eleganti: mezzibusti severi e dallo sguardo vago, come se non si fossero nemmeno resi conti di posare per il ritrattista e avessero invece continuato ad inseguire chissà quali pensieri.
In fondo alla stanza, troneggiava una cattedra dello stesso legno delle sedie, sorretta da quattro piedi intarsiati, sulla quale erano stati disposti con ordine meticoloso pile di fogli bianchi, calamai, penne e pennini.
L’uomo che vi era seduto dietro era completamente calvo e portava sul naso degli occhialini tondi; era profondamente assorto nella copia di fogli che prendeva da una pila e che, al termine dell’opera riponeva in un’altra pila lì accanto. Scriveva con cura estrema, lentamente, controllando parola per parola ciò che aveva appena copiato. Pareva essere un’occupazione di prioritaria importanza, tanto che mai, nemmeno per un istante, lui sollevava lo sguardo dalla sua opera; pensai che, in realtà, tutto quel daffare servisse solo a coprire la vera funzione, che era quella di piantonare il portone alle sue spalle, da cui provenivano voci sommesse che discutevano le questioni più alte di quello strampalato regno.
Io ed i miei due piantoni (uno seduto alla mia destra e l’altro alla mia sinistra) rimanemmo in attesa in quella stanza per un tempo che non seppi commisurare e che l’inattività dilatava a dismisura.
Fermo, seduto, piantonato, aspettando chissà cosa … Ce n’era abbastanza per far crollare chiunque non avesse avuto dalla sua un carattere irriducibile e un saldo autocontrollo!
Ad un tratto, un invisibile campanellino fissato dietro la scrivania trillò e il funzionario fece un rapido gesto verso di noi, senza alzare lo sguardo dai suoi preziosi fogli.
I due piantoni si alzarono e mi afferrarono per le braccia, conducendomi verso la scrivania; la aggirammo e ci dirigemmo verso la porta, che il funzionario aveva già sbloccato e iniziato a dischiudere. Entrammo e la porta si richiuse rapidamente alle nostre spalle, senza alcun rumore.
Eravamo al centro di un emiciclo a gradini, sui quali erano adagiati mollemente decine di uomini anziani, vestiti di sai, tuniche e caffettani, tutti bianchi, con ghirigori geometrici ed alamari cremisi, ocra, pervinca, attorno ai quali erano stati intrecciati ruvidi cingoli di canapa.
I gradoni erano stati letteralmente ricoperti di cuscini di stoffa morbida e trapuntata, di molteplici forme: per la maggior parte quadrati, ma ce n’erano di triangolari e perfino di cilindrici. Appoggiati su di essi, i senatori ascoltavano con attenzione un oratore che stava in piedi al centro dell’emiciclo e li arringava.
“… onde per cui, nobili senatori, la vexata questio resta la stessa che vi posi all’incipit della mia relazione: laddove si ammetta che l’Origine di tutte le Cose – l’Uovo Primordiale – fosse essa stessa una Cosa Materiale, bisognerebbe necessariamente accettare che debba esserci stata una Origine della Origine che l’abbia generata; pur tuttavia, tale Origine della Origine – una Gallina Primordiale, per così dire – avrebbe necessitato a sua volta di una propria Origine per esistere. Utrum, me consegue la indecidibilità della quaestio, stante l’impossibilità di risalire di Effetto in Causa – di Uovo in Gallina – fino ad una Causa Prima non causata. Vi ringrazio”
L’oratore si inchinò più volte all’emiciclo che lo applaudiva senza molta enfasi; vidi un senatore piluccare dell’uva da un vassoio in ceramica accanto a lui, mentre un altro aspirava profondamente da un narghilè e, sui gradini più in basso, uno dei più anziani dettava qualcosa ad una ragazza con i capelli raccolti a crocchia, che trascriveva rapidamente ogni parola.
Terminati gli applausi l’oratore tornò al suo posto con passo grave, mentre un impiegato attraversava la sala con una pila di fogli scribacchiati tra le braccia, dirigendosi verso la porta da cui eravamo entrati: con ogni probabilità, portava nuovo lavoro al funzionario nell’anticamera.
Una voce dall’ombra annunciò il punto successivo all’ordine del giorno, vale a dire il giudizio su di me.
Venni accompagnato al centro dell’emiciclo, mentre un ragazzo sui vent’anni entrava sulla scena ad ampie falcate, parlando al concilio con queste parole: “Buongiorno, Vostri Onori. L’accusa dimostrerà chiaramente che il detenuto che ora è di fronte a Voi fu colto in fragrante mentre ostentava comportamenti di natura quasi umana: e ciò non va fatto!”
Guardai i senatori e vidi che molti di essi si raddrizzavano sui cuscini, assumendo espressioni intense per una discussione che si prefigurava estremamente interessante.
L’accusatore continuò elencando tutta una serie di violazioni, colpe, doli, trasgressioni, illeciti, crimini e delitti che avrei commesso nel brevissimo tempo trascorso in quel Paese strampalato, me che nemmeno in tre vite insieme avrei avuto il tempo di commettere, in fede mia!
Lo ascoltavo incredulo e al tempo stesso incuriosito, perché quella montagna di incredibili sciocchezze non poteva riscuotere il minimo credito, tantomeno davanti ad un alto consesso di saggi senatori!
L’arringa durò decisamente troppo e venne conclusa da un inchino del mio accusatore verso l’assemblea che ricambiò il saluto con un silenzio tombale.
“Buon segno per me!”, pensai.
Dagli spalti, uno dei senatori mi rivolse finalmente la parola.
“Avete udito le accuse rivolte a voi. Cosa avete da dire in vostra discolpa?”
Cercai tra tutti i volti che mi fissavano chi avesse parlato, in modo da inquadrare l’interlocutore e prevenire eventuali obiezioni alla mia replica. Girai lo sguardo a destra e a manca, ma incrociai solo occhi severi.
“Allora? Nulla da dire a questo Concilio?” disse qualcun altro dalla parte opposta dell’emiciclo.
Mi rassegnai a rispondere a tutti gli astanti e a nessuno di essi in particolare. La cosa iniziava a non piacermi.
“Nobili senatori – esordii – tutto ciò che avete udito nei miei riguardi da parte dell’accusa merita di essere classificato con una sola parola: falsità!”
Attesi di capire la loro reazioni, ma sembravano tante statue di gesso poste ad ornare la stanza: immobili, silenziosi, severi.
Iniziai a percepire che il mio iniziale ottimismo era non del tutto fondato.
Presi il coraggio a due mani, inspirai a fondo e proseguii la mia difesa ricordando la mia provenienza, i motivi del mio viaggio, le circostanze in cui ero finito laggiù e il mio fermo desiderio di rispettare sempre i luoghi in cui mi fossi trovato. Chiarii con puntualità che ogni singolo capo di accusa era infondato e, anzi, insussistente e palesai che profonde differenze sfociano a volte in gravi incomprensioni, ma che i miei saldi principi di virtù e di coerenza mai e poi mai mi avrebbero consentito di attuare anche in minima parte le colpe che mi venivano addebitate. Li ringraziai, come aveva fatto il primo oratore che avevo ascoltato, ed abbassai lo sguardo verso il pavimento, in attesa del giudizio.
Dalle tribune si alzò, allora, uno dei più anziani che prese la parola in nome di tutta l’assemblea.
“L’evidenza innanzi al Consiglio è inconfutabile, tanto che non c’è neanche bisogno che la giuria si ritiri. In tanti anni di magistratura non avevo mai sentito nessuno più meritevole del massimo della pena”. All’udire queste parole, mi sembrò che il pavimento si aprisse sotto i miei piedi e sprofondassi nelle viscere della terra. Percepii anche che il Consiglio borbottava mugugni di consenso, il che mi provocò un capogiro che per poco non mi fece crollare al suolo.
Il senatore anziano riprese la parola e si apprestò a concludere.
“Sentenzio che tu sia consegnato ai tuoi simili” fu tutto ciò che aggiunse, accolto dall’unanime battimani dell’emiciclo.
Era la fine, pensai; dove potevo avere sbagliato? Quando avevo commesso il mio errore?
Istintivamente, il pensiero corse al mio incontro con il re dei re di quel regno assurdo fino all’inverosimile e me lo immaginai gongolante, mentre cercava di dissimulare a fatica la sua soddisfazione.
“Dove potevo avere sbagliato?” mi chiedevo disperato, mentre ripercorrevo nella mia mente l’incontro con il re dei re, avvenuto poco prima di quel giudizio.
Leggi qui la puntata precedente | Appuntamento alla prossima puntata con “Lo strabiliante viaggio di Anthony B. Elliott”].
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Elio Bucciantonio è nato a Chieti nel giugno 1967. Ingegnere gestionale, attualmente consulente, vive in Abruzzo, a San Salvo (CH), dove ha scritto la raccolta poetica “Settembre” (Ed. Cannarsa, 1993) e il romanzo “Il mondo perfetto” (Ed. Cannarsa, 2008).