La verità è una sfera: da qualsiasi parte la si guardi, se ne vede solo una parte.
L’aforisma non è mio, naturalmente, ma del filosofo greco Parmenide: nella sua essenzialità, ci fa notare come la comprensione umana delle cose sia di sua natura e inevitabilmente “parziale”.
Certo, in un mondo ideale, gli uomini potrebbero mettersi in cerchio attorno alla “sfera” mano nella mano e raccontarsi l’un l’altro ciò che vedono, raggiungendo così una comprensione più alta, più completa attraverso la comunicazione e la partecipazione.
La realtà, però, si sa, è fatta di molti più egoismi e prevaricazioni che di positiva e fraterna solidarietà e questo fa sì che le persone tendano anche ad esaltare la propria parziale visione come assoluta e a cercare di forzare gli altri ad accettarla.
Ecco che, quindi, la disinformazione è connaturata alla natura umana tanto quanto la sua “volontà di potenza”.
Se ritorniamo indietro nel tempo, possiamo trovare oceani di disinformazione perpetrata in ogni angolo del mondo: dal mito dell’Eldorado alle armi chimiche di Saddam, dalla presunta inferiorità di una razza alla natura demoniaca di fenomeni naturali, dalla preminenza schiacciante del proprio dio alla “normalizzazione” perpetrata dai regimi dittatoriali.
Questi e numerosi altri esempi, hanno un grande, mostruoso fattore comune: chi disinformava era chi deteneva il potere della informazione.
Difficile, se non impossibile, disinformare se non si possedeva il controllo dei canali di comunicazione: le assemblee nei periodi antichi, la carta stampata in quelli di mezzo, la radio e la televisione in tempi più recenti. Per secoli, la disinformazione è stata, perciò, appannaggio di pochi – quelli al potere nello specifico contesto storico e geografico.
Poi è arrivato Internet.
Oggi l’informazione viaggia sul web e, ancor più, sulle chat degli smartphone. Un terremoto, una vittoria sportiva, un evento epocale, in meno di un’ora fanno il giro del mondo toccando potenzialmente chiunque possegga uno smartphone o un tablet.
Chiaro che lo stesso valga non solo per l’informazione ma, anzi, anche per la disinformazione, che oggi chiamiamo con un nome nuovo, anglofono: “fake news”, cioè notizia fasulla.
Normalmente aborro la ricerca di nomi nuovi per concetti vecchi (mi sa tanto di presa in giro), ma in questo caso sono costretto a fare un’eccezione. La disinformazione, quella che passava nei canali di comunicazione tradizionali (notare che ho evitato il termine “mass media”) è stata dematerializzata dall’avvento di Internet e non è più prerogativa di chi guida il carro.
Questo fa paura, poiché potenzialmente destabilizza – basti vedere ciò che avviene in Cina, dove il regime periodicamente oscura Internet ma comunque non argina la fuga di notizie all’esterno – e da più parti, infatti, si inizia a parlare di “validare” l’informazione, che è un eufemismo per “tenere sotto controllo” l’informazione stessa e, in ultima analisi, tornare a veicolarla.
Ma questa dematerializzazione è davvero così male?
Personalmente, quando leggo una notizia “strana” faccio sempre delle verifiche sul web per cercarne riscontri e, infatti, molto difficilmente le “fake news” mi prendono in castagna: questo proprio grazie al fatto che non solo la disinformazione ma anche l’informazione stessa siano dematerializzate e, quindi, alla portata di tutti. Se così non fosse, dovrei bermi passivamente qualsiasi verità passasse dai mezzi di informazione ufficiali, il che, a mio parere, sarebbe infinitamente peggio.
Perché, allora, tutta questa (recente) attenzione alle “fake news”?
Forse, una volta tanto, la definizione è contenuta in ciò che dobbiamo definire: quella delle “fake news” è essa stessa una “fake news”.