Una popolazione tranquilla quella d’Abruzzo, mite ed anche troppo accondiscendente. Per la generazione che non può averne ricordo diretto, però, è la storia moderna a narrare di scontri pesanti tra abitanti de L’Aquila e Polizia ed a consegnarci immagini bianco e nero di quei tre giorni del febbraio 1971. La città fu sconvolta dai suoi stessi residenti con un vero moto rivoltoso, furono assaltate le sedi di partito del PCI e della DC, abitazioni private di politici, distrutti arredi urbani, organizzati blocchi stradali e tante furono le violente mischie con ferimenti ed arresti: vera guerriglia urbana.
La dura repressione, condotta da reparti della celere, non risparmiò nessuno dei rivoltosi, cittadini di ogni estrazione sociale esasperati dalle decisioni che, in quei giorni, venivano prese con l’approvazione dello Statuto della Regione Abruzzo da parte del Consiglio regionale. Il clima era greve da tempo, la rabbia e la tensione percepibili in ogni angolo della città ed a nulla approdò il lavorio della politica alla ricerca di un accordo che acquietasse gli animi.
Motivo del contendere, quale dovesse essere il Capoluogo di Regione: L’Aquila o Pescara. La prima, antico luogo di storia e di cultura, la seconda, moderno simbolo di progresso e motore economico. Il compromesso offerto fu lo sdoppiamento delle sedi istituzionali dell’ente Regione, degli Assessorati, degli uffici ed il riconoscimento di una sostanziale pari dignità. La decisione, che sarebbe dovuta apparire salomonica, non risolse alcunché, gli Aquilani la ritennero una sconfitta ed a Pescara, città in cui, nell’anno precedente, pur vi erano stati alcuni disordini, non fu vissuta come una vittoria.
Per gli Aquilani, le parole contenute nel testo di legge regionale suonarono come una spartizione del Capoluogo di Regione, una scelta che avrebbe comportato la sottrazione di importanti Assessorati e minato la dignità della città. Anche dopo la definitiva approvazione della legge continuò la campagna a difesa de l’Aquila Capoluogo ma senza risultato: sostanziosi Assessorati a Pescara ed Aquilani convinti di essere stati defraudati anche della speranza di prospettive migliori, un isolamento non soltanto più geografico.
Sono trascorsi 46 anni, gli ultimi contrassegnati da eventi drammatici che certo hanno impresso un duro colpo alla citta de L’Aquila. L’espressione oggi più in uso è “ricostruzione”, termine riferito non soltanto agli spazi fisici dai quali sono scomparsi interi edifici e nei quali sono state minate importanti e storiche strutture ma inteso anche quale obiettivo di riconnessione delle relazioni di Comunità.
Dopo quasi mezzo secolo, sembra riaprirsi la vecchia ferita, in verità mai completamente sanata. L’abbrivio è dato da “Nuova Pescara”, progetto che prevede, entro il gennaio 2019, la fusione dei Comuni di Pescara, Spoltore e Montesilvano. Alcuni passi sono stati già compiuti verso la nascita del nuovo Ente locale che li raggrupperà. La realtà istituzionale che ne scaturisce sarà di oltre 200mila abitanti e rivendicherà, in forza del vantaggio numerico dei suoi residenti, dell’entità delle risorse economiche prodotte e della posizione geografica di cui gode, il ruolo di Capoluogo di Regione, sede di servizi ed istituzioni.
Gli Abruzzesi sanno quanto Pescara rappresenti luogo d’attrazione per più aspetti, economici e sociali, e come di fatto essa sia considerata la città più rappresentativa d’Abruzzo fuori dai confini regionali. Così come ben sanno che sottrarre a L’Aquila il suo ruolo istituzionale significherebbe, oggi e nella prospettiva, destinare la città ad una fatale forma di definitivo abbandono.
Nel momento in cui e se la questione si porrà, sarà la politica a decidere, così come avvenne nel ’71, allorquando una scelta, frutto di un compromesso mai digerito, determinò significativi moti e rivolte. Se realmente si dovesse intravedere una volontà politica indirizzata a fare di Pescara il nuovo Capoluogo di Regione, occorrerebbe preordinare, da subito e per quanto difficile, un percorso che non alimenti pericolose contrapposizioni. Se, invece, il tema venisse oggi rinfocolato soltanto per farne motivo di proselitismo in occasione delle prossime campagne elettorali, allora ci troveremmo difronte ad un fatto di grave irresponsabilità.
Entrando un simile argomento nei temi della campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento nazionale, ogni candidato si ergerà a paladino del proprio limitato territorio, alla ricerca del consenso dei vicini di casa e non degli Abruzzesi in quanto tali. Le questioni di programma saranno nulla a fronte delle passioni delle tifoserie in campo, il tutto favorito da una nuova legge elettorale che prevede collegi geograficamente circoscritti, laddove quelli dell’aquilano sono ben distinti da quelli del pescarese.
Accadrà che i candidati abruzzesi, nuova rappresentanza parlamentare in pectore, utilizzeranno l’argomento L’Aquila/Pescara quale strumento per l’acquisizione del consenso e così l’obiettivo principale non sarà lo sviluppo del territorio regionale nel suo insieme e la sorte dell’intierezza della sua popolazione ma soltanto la propria personale elezione.
Questo è un esempio di politica di basso rango, di tecnica elettoralistica dolosamente perpetuata ai danni di chiunque, Abruzzese, spera sia l’intera economia regionale a risalire la china. Nei tempi dei servizi e della produzione economica globalizzati, è incredibile che si vogliano rinfocolare, consapevolmente e per fini elettoralistici, vecchi tormenti di cui l’Abruzzo non ha certo bisogno.