Màmme cànd’è bèlle! È frègne a’nnaquèlle! Ma che te n’ha ddà fa di tùtte l’àddre còse! M’na riprìje! … Oh ca ìje sò d’lu Uàste!!!
Questa che avete appena letto è la fedele trascrizione dei pensieri di Antonio D. questa mattina alle ore 6.30, mentre caricava sul suo gruppo Facebook di “Amici di Vasto” le immagini dell’alba sul golfo, appena riprese nella sua passeggiata mattutina sulla spiaggia.
Nello stesso istante, altri 144 abitanti della ridente cittadina frentana avevano all’incirca lo stesso pensiero, rivedendo le immagini appena riprese con il loro smartphone dal balcone di casa e valutando quali di esse caricare sul medesimo gruppo Facebook o su altri gruppi similari.
Ma cosa spinge il nostro Antonio D. a iniziare ormai tutte le sue giornate scattando sempre la stessa foto, praticamente tutti i giorni dell’anno (varia solamente, di poco, la posizione del sole all’orizzonte)? Cosa significa per lui questa consuetudine, diffusasi in varie forme anche nel resto della popolazione cittadina? E cosa spinge, soprattutto, migliaia e migliaia di persone a iscriversi ai suddetti gruppi per visionare e, a volte, commentare tali foto e altre di carattere simile?
Abbiamo provato a capirlo chiedendolo direttamente ad Antonio D. (il nome è, ovviamente, un nome di fantasia per proteggere l’identità del nostro testimone…) e Antonio ci ha dichiarato laconicamente che “così mi sento di iniziare bene la giornata”. Ha inoltre detto che “in questo modo voglio farla iniziare bene anche agli altri”. Per questo, infatti, Antonio ha confessato di postare le foto “accompagnate sempre da un cordiale Buongiorno”!
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È vero. Infatti, se spegniamo la puntata che Quark stava dedicando ad Antonio D. e andiamo a vedere su “Sei di Vasto se” (il gruppo Facebook storico, oggi arrivato alla sua evoluzione 2.0) e su tutti i suoi epigoni, troviamo veramente un mare di foto della nostra città e un mare di “Buongiorno!” che li accompagna. Cosa significano? Cosa si cela dietro questo bisogno di scattare immagini del proprio ambiente vitale, di condividere questi frammenti di immaginario emotivo e di accompagnarli con un messaggio che ha funzione squisitamente conativa (“conativo” è un modo di cercare il contatto senza veicolare un particolare contenuto, solo per avere certezza che ci sia qualcuno in ascolto, un po’ come il “pronto?” che si usa per iniziare una conversazione telefonica)?
La risposta è molto semplice. C’è un crescente bisogno di identità. Di avere qualcosa in cui riconoscersi, qualcosa che dia forma e sostenga la propria coscienza individuale, inserendola all’interno di un gruppo, di una comunità legata da qualcosa che dia un valore oggettivo (e non solo soggettivo) agli elementi costitutivi della propria personalità.
Un bisogno assolutamente naturale, di fatto quello che ha spinto l’uomo ad associarsi e a creare strutture organizzate fin dai primordi della civiltà. Siamo di fronte, però, ad una modalità di espressione che è diventata talmente facile, talmente semplice, talmente immediata da fermarsi al livello dell’emozione e dell’idea di appartenenza, senza essere in grado di veicolare altri contenuti (una sorta di potentia coeundi accompagnata da un’impotentia generandi).
L’immagine è talmente potente, talmente evocativa da surclassare la parola. Per questo tutti la usano. Allo stesso tempo, non costituisce un mezzo di scambio. Non può essere analizzata, contraddetta, sottoposta a confutazione. Esiste e basta. Viene sparata nell’agone della comunità telematica come un frammento di verità (anche se, di fatto, non è realtà oggettiva, ma un vero e proprio testo che il cervello legge con ben precisi pattern cognitivi) per suscitare reazioni emozionali (le faccine che di solito decorano le succinte risposte al Buongiorno! iniziale) e tale rimane.
“Cos’hai contro Antonio D.? Che t’ha fatto di male?” diranno ora i pochi lettori che hanno avuto l’ardire e la pazienza di arrivare a questo punto dell’articolo…
Niente. Anzi… Mi fa piacere che esprima il suo bisogno di appartenenza in qualche maniera. Qualunque essa sia. Però sarebbe bello che questo bisogno venisse soddisfatto anche con maggiore consapevolezza, attraverso simboli e significati coscienti e attraverso la parola. La parola, infatti, è difficile da maneggiare. Quando la scrivi, è lei che poi ti parla e quando la rileggi, magari scopri di non essere d’accordo neanche con te stesso. La parola va approfondita, compresa, contestualizzata…
La parola va cucinata. L’immagine no. È come un surgelato pronto per il microonde.
Nulla mi toglie dalla testa che questa “civiltà dell’immagine” così facile e così poco consapevole dei suoi registri sia una sorta di veloce ritorno al passato. Ad un passato remoto in cui tutti avevamo bisogno di riconoscerci in qualcosa, ma lo facevamo solo in chi ci era prossimo, a prescindere da tutto il resto. Riconoscerci in chi, come noi, sentivamo far parte della “tribù”.
In questo senso, l’immagine non è civile, perché non permette di costruire e condividere esperienza, non crea una conoscenza che possa fornire linee di azione comuni. Non crea, in altre parole, quell’organizzazione complessa nei rapporti che definiamo civiltà e grazie alla quale ci siamo evoluti fino al punto di inventare lo smartphone e Facebook…
Però c’è poco da fare… Oggi in questa “in-civiltà dell’immagine” ci siamo immersi appieno tutti quanti. Anche io che ho scelto l’immagine che accompagna questo articolo e tu che hai deciso di leggerlo perché, quando l’hai trovata su Facebook, era stata proprio l’immagine a colpirti!