Ieri il presidente del centro commerciale Insieme di San Salvo, Lorenzo Moschetta, ha annunciato che i 40 esercizi commerciali da lui rappresentati non hanno intenzione di pagare le imposte locali. Questo per protestare contro la decisione del prefetto Antonio Corona di collocare 70 richiedenti asilo nella struttura ricavata dall’ex albergo Miraverde, proprio alle spalle del centro. I motivi di questa “protesta fiscale”, a detta del presidente Moschetta, sono dovuti alla posizione decentrata della struttura ed alla mancanza di alcuna possibilità di integrazione degli ospiti con il tessuto sociale circostante, in una situazione che porterà certamente all’aumento dell’accattonaggio, con evidenti ricadute economiche sul centro commerciale stesso.
NIMBY, “Not In My Back Yard”, ovvero “Non nel mio cortile”. NIMBY, questo è il termine che meglio sintetizza il clamoroso annuncio di Moschetta. E NIMBY è anche la maggior parte delle decine e decine di persone che lo hanno commentato sui social, aggiungendo a volte considerazioni variamente colorite sull’invasione di migranti che starebbe subendo il nostro paese (dimenticando che anche noi, come cantava Raiz, siamo “Figli di Annibale”).
Chiariamoci bene, NIMBY non vuole essere un’offesa, né un termine spregiativo. È semplicemente la constatazione che, riguardo al problema dei migranti, l’atteggiamento più comune (non solo quello di Moschetta) è molto semplice: “È giusto accoglierli, ma bisogna farlo bene, per questo non lo si può fare qua!”.
Questo atteggiamento, seppure comprensibile nello specifico, è quello che sta portando ad una situazione di totale chiusura da parte delle comunità locali e delle amministrazioni, che si rifiutano di indicare soluzioni per l’insediamento dei centri di accoglienza. Il NYMBY, purtroppo, è una specie di virus. Quando una comunità dichiara “non nel mio cortile”, quella accanto si sente legittimata e quasi costretta a fare altrettanto.
Come sottolineato dallo stesso prefetto Corona, l’individuazione dell’ex Hotel Miraverde è stata una scelta obbligata per l’assoluta mancanza di alternative offerte dai comuni limitrofi e dalla stessa San Salvo. Ha un bel dire Moschetta che i centri di accoglienza dovrebbero essere all’interno dei centri abitati per consentire una migliore integrazione, se poi nessun comune offre neanche un appartamento proprio perché non vuole immigrati nel centro cittadino!
Eppure dovrebbe essere a tutti chiaro che la questione non è impedire l’afflusso, ma gestirlo. Siamo il ponte naturale verso un continente con oltre un miliardo e duecento milioni di persone che preme per avere riparo dalle guerre, dalle carestie, dalla povertà che spesso noi europei abbiamo causato o alimentato. Abbiamo un bel dire che debbano stare a casa loro. I flussi dall’Africa e dal Medio Oriente continueranno e saranno sempre più intensi. Non riusciremo in alcun modo a fermarli, Pertanto dobbiamo davvero porci il problema di un modello di integrazione che oggi, grazie ai NIMBY, non solo non viene costruito, ma di cui non si riesce neanche a parlare.
Ripeto, dal punto di vista di Moschetta e del centro commerciale da lui rappresentato, la questione è assolutamente sensata. Quale esercente vorrebbe avere un centro di accoglienza giusto accanto? Nelle condizioni in cui questi centri sono poi soliti operare? Infatti Moschetta, forse senza rendersene conto, parte dal presupposto che il centro commerciale, anche in mancanza di problemi oggettivi collegati al centro di accoglienza, ne sarebbe penalizzato nell’immagine. I clienti diminuirebbero per il sol fatto di vedere (o sapere) che vicino al centro ci sono dei migranti.
Però dobbiamo renderci conto che, in buona sostanza, Moschetta sta dicendo che vastesi e sansalvesi non andrebbero più volentieri nel suo centro commerciale perché hanno paura dell’uomo nero!
Ed è questa la sostanza. È vero, non c’è nulla da fare, tutti abbiamo paura dell’uomo nero. A volte lo ammettiamo (in questo sono più sinceri coloro che si lasciano andare a sfoghi razzisti…), nella maggior parte dei casi no. Ma non dovremmo vergognarci di ammetterlo proprio perché, solo ammettendolo a noi stessi, possiamo razionalizzare e capire cosa è sensato e cosa non lo è.
Anche a me (che ho sempre pensato di non aver paura di nulla…) è successo. Qualche mese fa, ero nella città del Nord Italia in cui vivo (e dove “l’uomo nero” è molto più diffuso che a queste latitudini). Avevo portato i miei figli a pattinare su un lungo viale, ricavato dalla vecchia cinta muraria cittadina, chiamato “pubblico passeggio”. Ad un certo punto, uno dei tanti africani che passavano in bicicletta rallenta e inizia a guardarci con insistenza. Si avvicina ai miei bambini rivolgendosi al più grande con quel caratteristico inglese storpiato dell’Africa centrale.
Io, d’istinto, corro verso di loro e mi frappongo fra mio figlio e l’uomo nero. Inizio a parlare con lui, cerco di capire cosa voglia. Lui estrae dalla tasca un telefono (vecchio e rotto), vuole farmi vedere delle foto. Ci mettiamo sotto l’ombra di un albero, per vedere meglio. Sono foto di lui da bambino, ad una gara di pattinaggio in Nigeria. Aveva la stessa età di mio figlio. Allora lo guardo negli occhi. Nonostante sia più alto di me, è ancora un ragazzo, avrà 18 anni o forse meno. Per l’età, potrebbe essere anche lui mio figlio.
Mi chiede quanto costano i pattini e dove si possano comprare. Quando gli dico che nuovi costano circa 50 euro, capisco che sta calcolando quanto tempo potrebbe impiegare a mettere da parte quella cifra. Mi chiede se nel negozio si possono guardare anche prima di comprarli. Gli rispondo di sì.
Mi ringrazia e si avvia in bici in direzione del grande centro commerciale dove gli ho detto che troverà i pattini. Ride, sembra felice di avere qualcosa da sognare, qualcosa che possa assomigliare al sogno di una “vita normale”.
Mio figlio, allora, mi chiede chi fosse quell’uomo nero. Gli rispondo che non era un uomo nero, ma era solo un uomo che aveva voluto per un momento tornare bambino.