Montecchi e Capuleti, Guelfi e Ghibellini, Maggioranza e Opposizione… Tutto il nostro immaginario si divide in maniera molto netta fra bene e male, bianchi e neri, noi e gli altri. Anche il governo della città, ancora oggi, è assolutamente improntato alla presa di posizione, la dichiarazione di parte, l’assunto che, qualunque cosa faccia uno dei nostri, sia opportuno difenderlo mentre, qualunque cosa faccia uno degli altri, sia necessario attaccarlo.
Negli ultimi giorni, a Vasto, ci sono state le ennesime polemiche su questioni di pubblico interesse. L’assunzione di un consigliere comunale della maggioranza in un consorzio che fornisce servizi all’amministrazione, l’annuncio del calendario eventi per l’estate, il costo dello staff del sindaco. Questioni fra loro diverse, probabilmente nessuna di carattere vitale, ma accomunate (insieme a tante altre che, periodicamente, si dividono l’attenzione della pubblica opinione) da una partigianeria per cui, chiunque dica la sua, si può esser certi che si sta esprimendo non certo per astratto “amore della verità”, quanto, piuttosto, per concreto interesse di parte.
Perché siamo fatti così? Perché abbiamo bisogno di annusarci, schierarci, combatterci e non riusciamo a mettere mai in campo azioni concrete fatte in nome di tutti e non solo nell’interesse di alcuni? Qual è la nostra malattia? Di vastesi, ma anche, in buona misura di Italiani? Questa malattia ha un nome ben preciso. Si chiama provincialismo. È subdola e pericolosa e, alla lunga, per la sopravvivenza stessa della comunità può risultare fatale. Sulle sue cause, i suoi sintomi e le sue cure, mi ripropongo di tediare i lettori quantomeno per le prossime 100 righe. Siete avvisati!
Iniziamo dal nome della malattia. Il termine “provincialismo” indica gli aspetti deteriori dell’essere provinciali, dell’abitare in provincia. Chi non ha mai vissuto in una città o, ancor meglio, in una capitale, non può capire quale sia la differenza. Continuerà a pensare che in provincia (soprattutto nella sua…) si sta meglio. Per il sole, per il mare, per il cibo, ecc. ecc.
…e ha ragione! Sicuramente nella sua provincia (ma anche nelle altre…) si vive meglio. Molto meglio che in città. Proprio perché si è del posto. Si ha un’identità, una storia, una famiglia. Magari anche un piccolo patrimonio. Chi abita in città, invece, in molti casi ci è andato a vivere per “farsi una domani”, per trovare un lavoro, per diventare qualcuno. Pertanto è più “povero” di chi è rimasto in provincia. Magari guadagna di più, ma la qualità della sua vita è veramente inferiore. Di molto.
Quello che, però, non sa chi è rimasto in provincia è che il cittadino, proprio per il fatto di vivere in un contesto in cui tanti sono privi di quella protezione familiare che fornisce solitamente il luogo in cui si è cresciuti, è costretto a confrontarsi molto di più con gli altri. Chiunque essi siano. Non può chieder loro “A chi appartieni?” e sa che nessuno di loro lo chiederà a lui.
Il termine “provincialismo” indica, quindi, la chiusura di chi vive in provincia negli stereotipi che fanno parte della cultura del luogo. Tutto sommato è un bel vivere. Almeno si hanno dei punti fermi (il brodetto è il miglior piatto del mondo, il mare di Vasto non ce l’ha nessuno, ecc. ecc.). Però si corre il rischio di non voler neanche conoscere cosa ci sia al di là. Chi di noi vastesi ha mai sentito la voglia di andare al mare al Conero o in Gargano? Penso siano in pochi. E di mangiare il brodetto di San Benedetto per confrontarlo con il nostro? Nessuno, vero? Ma tutti sono sicuri, in cuor loro, di poter dire che “Tànde lu nòshtre j’è lu cchiù màje!”.
Facciamo attenzione. L’atteggiamento di cui sto parlando non è il doveroso orgoglio per le proprie origini e la propria identità. È qualcosa di più, che va oltre e che impedisce un atteggiamento obiettivo verso qualsiasi giudizio. Soprattutto, è un’attitudine che non si ferma alla difesa della propria identità locale, ma si trasferisce al quartiere, alla parrocchia, al gruppo di amici, alla singola famiglia. Questo bisogno di appartenenza deve sempre esprimersi non tanto nell’essere simile a qualcuno ma, soprattutto, diverso dagli altri. È uno stare uniti non “con” qualcuno, ma “contro” qualcun altro. Le conseguenze di questo atteggiamento diventano un fortissimo freno all’integrazione ed allo sviluppo di quelle forze che potrebbero realmente cambiare in meglio una realtà locale, ma che non vi riescono proprio perché sono frazionate, ostili e abituate a passare il tempo a combattersi fra loro piuttosto che combattere insieme per ottenere un risultato comune.
Purtroppo questo modo di essere ce l’abbiamo tutti nel sangue. Vi siete mai chiesti, per esempio, perché la Cattedrale di Vasto è piccola e artisticamente poco significativa rispetto ad altre cattedrali di centri simili? Non avete mai pensato, guardando la chiesa di San Giuseppe, che c’è qualcosa che non torna nel suo aspetto, nella sua facciata, nel suo interno “finto marmo” policromo che vorrebbe richiamare fasti medievali, ma che ci riporta ad una economica operazione di abbellimento dell’ottocento?
Vasto aveva due grandi chiese, molto più qualificate a divenire sede di una cattedra vescovile. Sia per la loro storia che per le opere d’arte e le reliquie che custodivano. Erano San Pietro e Santa Maria ed erano anche gli unici due “capitoli” cittadini (assemblee di sacerdoti). Erano state entrambe fondate nel medioevo (ne abbiamo notizia certa dal dodicesimo secolo) e avevano costituito l’elemento aggregante fondamentale dei rispettivi centri urbani: Vasto D’Aimone (nucleo medievale sorto attorno a Santa Maria) e Vasto Gisone (l’originaria città romana sul cui campidoglio era stata costruita San Pietro, esattamente nel luogo dove prima vi era probabilmente il tempio di Cerere).
San Giuseppe, invece, non aveva questa storia illustre alle spalle. Era una piccola chiesa di un convento dei frati Agostiniani e non si chiamava neanche San Giuseppe. Era intitolata a appunto a Sant’Agostino. Non aveva un suo capitolo e non vi si celebravano né battesimi, né funerali. Rappresentava solo uno dei tanti piccoli luoghi di culto di cui era disseminata la nostra città. Non aveva quindi la funzione sociale e la forza economica delle altre due chiese e, soprattutto, non ne aveva la forza attrattiva rappresentata dalle sacre e miracolose reliquie che esse, invece, ospitavano: la Sacra Spina ed il Sacro Legno.
Queste due reliquie, a cui venivano attribuiti numerosi miracoli, erano talmente importanti per la popolazione che, per difenderle e venerarle, erano sorte delle confraternite i cui aderenti erano particolarmente fieri della propria identità. Talmente fieri che periodicamente fra le due fazioni rivali scoppiavano dei tumulti. Tumulti tanto forti che, a inizio ‘800 ci scappò pure il morto.
Giuseppe Bonaparte, in quel momento Re di Napoli, approfittò della situazione e soppresse entrambi i capitoli di San Pietro e di Santa Maria. Per dare un luogo di riferimento ai sacerdoti di Vasto, dichiarò “collegiata insigne” la chiesetta del convento degli Agostiniani, che nel frattempo, si erano sciolti proprio per la soppressione degli ordini monastici imposta dalle leggi napoleoniche. Non essendo più questa chiesa legata a Sant’Agostino, Giuseppe Bonaparte volle che fosse dedicata al suo santo (appunto San Giuseppe…) e fece anche realizzare in suo onore una bella statua lignea che ancora oggi è visibile in una nicchia accanto all’altare.
È appunto a seguito di queste vicende che la cattedrale di Vasto non è stata San Pietro (come avrebbe voluto la storia, visto che il capitolo di Santa Maria nel medioevo dipendeva appunto da quello di San Pietro), né la stessa Santa Maria (che, per volere dei D’Avalos, nel settecento era stata ricostruita in forme grandiose che ne fanno uno degli edifici religiosi più imponenti d’Abruzzo).
Certo, San Giuseppe è stata successivamente ampliata e rappresenta un luogo caro a tutti i vastesi. Allo stesso tempo non è paragonabile alle altre cattedrali adriatiche che, da San Ciriaco di Ancona, fino a San Nicola a Bari, passando per Atri, Chieti, Termoli, Trani e tutte le altre città significative della nostra costa, rappresentano da sempre il fiore all’occhiello della città e il loro simbolo di riferimento nel mondo.
La storia della rivalità fra Santa Maria e San Pietro, della competizione fra Sacra Spina e Sacro Legno, della incapacità dei vastesi di oltre 200 anni fa di trovare un fattore comune, invece di consumarsi in lotte intestine è, purtroppo, anche la storia di oggi. Duecento anni non sono bastati a ricongiungere una città che si divide ancora in “Capammòne” e “Capabbàlle”, la parte alta e la parte bassa che si guardano in cagnesco e che tuttora, spesso, si disprezzano vicendevolmente.
A questa forma acuta di provincialismo, che viste le sue caratteristiche possiamo chiamare a ragione veduta “campanilismo”, oggi sembra non esser ancora stata trovata alcuna cura. Anzi, il benessere degli ultimi 60 anni sembra avergli dato nuova linfa. Allo stesso tempo la scarsa capacità del territorio di riportare indietro i suoi figli che si sono nel frattempo “sprovincializzati” contribuisce ad inasprire ulteriormente questa tendenza. Una tendenza che è propria di tutti i piccoli centri italiani, ma che in condizioni particolari, come appunto quelle di Vasto (qualità intrinseca del luogo, composizione anagrafica, rendita di flussi immigratori positivi dal territorio montano, ecc.), diventa particolarmente evidente e pericolosa.
E allora? Che fare? Singolarmente ognuno di noi può fare ben poco, salvo guardarsi dentro e rendersi conto che questo seme è dentro di noi e solo rendersene conto ci può consentire di non diventarne, inconsapevolmente, schiavi.