Sevel, il più grande stabilimento d’Abruzzo, il secondo in Italia dopo Melfi. Mario è un giovane operaio neo-assunto. Ieri ha messo piede per la prima volta in fabbrica. Il primo posto che gli hanno dato non era alla catena di montaggio, ma in aula. Gli hanno spiegato le cose più importanti da sapere per iniziare a lavorare.
Gli è stato detto che riceverà della formazione sulle nuove metodologie di produzione. Gli hanno parlato di strane sigle che dovrà imparare. Parole magiche che lo faranno lavorare meglio. 5S, 3G, 5W+1H, 4M, 5Whys. Sono sigle che ora risuonano nella sua mente. Cosa saranno mai? Mario è curioso. Andava bene a scuola, ha ottenuto il diploma con buoni voti. Cosa dovranno insegnargli ancora?
Oggi è il primo giorno in produzione. Mario non è ancora sulla linea, è in area addestramento. Ha il tempo per scambiare quattro chiacchiere con i suoi nuovi compagni di lavoro. Neo-assunti anche loro. Scopre che tutti hanno un diploma, qualcuno anche la laurea. Qualcuno ha già lavorato come interinale e ha già esperienza della fabbrica. Prova a chiedere a loro cosa siano quelle sigle misteriose, di cui non ha mai sentito parlare a scuola. Il team leader lo sente. Gli risponde di non preoccuparsi. Sono parole giapponesi. Concetti semplici, ma molto importanti. Saranno il suo nuovo modo d’essere e di ragionare. Mario è perplesso…
Questa scena, da me immaginata, è assolutamente verosimile. Una scena di questo genere sarà stata vissuta non solo da tanti che lavorano in Sevel, ma anche da tutti coloro che lavorano nelle altre grandi industrie manifatturiere italiane. Tutte hanno, infatti, un sistema di diffusione dei metodi di gestione del processo produttivo. Spesso lo chiamano “sistema di eccellenza”, “sistema di miglioramento continuo” o qualcosa del genere. Bene o male, si tratta sempre e comunque di un sistema per assicurarsi che tutti gli addetti sappiano come comportarsi di fronte ad un qualunque problema di produzione. Non solo gli operai, ma anche e soprattutto gli impiegati.
Cosa sono, allora, queste parole magiche? Cosa significano? Andiamo con ordine.
Le 5S derivano in loro nome da 5 termini giapponesi che indicano le 5 fasi per tenere in ordine il proprio posto di lavoro. Hanno anche una comoda traduzione italiana: Scartare, Sistemare, Spazzare, Standardizzare, Sostenere. Le 5S sono il “vademecum” per gestire correttamente il proprio posto di lavoro. Buttare ciò che non serve, tenere in ordine, pulire, definire degli standard, diffondere queste abitudini per fare in modo che anche gli altri facciano la stessa cosa. Sono l’applicazione industriale del bestseller di Marie Kondo (guarda caso, anche lei giapponese): “Il magico potere del riordino”. Oppure, per rimanere alle nostre longitudini, sono l’eco delle antiche parole della mamma: “Metti a posto la tua stanza!”.
Anche le 3G sono un acronimo di origine giapponese. Questa volta i termini stanno a significare Andare sul terreno – Osservare ciò che accade – Raccogliere i dati. Le 3G sono le “istruzioni per l’uso” che vengono fornite a tutti gli ingegneri e ai supervisori del processo perché non prendano lucciole per lanterne. Andare sulla linea di produzione e non rimanere nel proprio ufficio. Guardarsi intorno per cogliere la complessità del processo e non limitarsi solo ad alcuni dettagli. Fare indagini su basi quantitative e non arrischiare giudizi solo su considerazioni qualitative. San Tommaso (quello che non si faceva venire la mosca al naso…) avrebbe detto “Se non vedo, non ci credo!”.
5W+1H, 4M e 5Whys sono, invece, sigle di termini in lingua inglese. Identificano le prime 3 fasi dell’analisi di un problema complesso (di solito c’è anche una fase zero che dice, più o meno, “Se vedi un buco nella diga, intanto tappalo, solo a quel punto cerca di capire come si è creato”). Queste 3 fasi, da affrontare scrupolosamente nell’ordine citato, possono essere riassunte come “Descrizione del problema”, “Elenco di tutte le possibili cause”, “Ricerca della causa radice”. In buona sostanza, affermano che, di fronte ad un problema di cui non si conosce la causa, la prima cosa da fare è descriverne le condizioni (chi, quale, cosa, quando, dove e come), poi si deve fare il brainstorming per tirar fuori tutte le cause che possono averlo generato (aiutandosi con domande relative ai 4 fattori chiave di Macchina, Metodo, Materiali e Manodopera) e, infine, per determinare la vera causa radice, quella che andrà eliminata se si vuole evitare che il problema si ripresenti, bisognerà effettuare un procedimento diagnostico di “risalita” ad una causa non correlata ad altre. Un po’ come fa il dr. House.
Insomma, quando un lavoratore inizia a lavorare oggi in una grande industria, questa investe tempo e si adopera con scrupolo per insegnargli a tenere in ordine, a controllare le cose di persona e a risolvere problemi senza trarre conclusioni affrettate.
Svelato l’arcano di queste magiche sigle (…ma ce ne sono anche tante altre che non abbiamo qui il tempo di citare), immagino che qualcuno si chieda: “Ma non basterebbe ascoltare la mamma, credere a San Tommaso e guardare il dr. House per fare tutto ciò?”. Sinceramente sì. Ma, evidentemente, nessuno lo fa.
Davvero. (Quasi) nessuno lo fa, altrimenti le aziende non avrebbero piani di formazione ricorrenti su questi temi. E, soprattutto, secondo l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), l’Italia non sarebbe in cima alle classifiche di analfabetismo funzionale in Europa (dietro alla sola Turchia).
Uno studio di questo ente, il PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) ha mostrato come, nel nostro paese, ben il 28% degli adulti sia da ritenersi “analfabeta funzionale”. Questo vuol dire che sa leggere e scrivere, ma non è in grado di comprendere informazioni anche basilari, come un libretto di istruzioni o un semplice concetto matematico. Forse ancora più inquietante è pensare che, se consideriamo anche chi ha un livello di capacità basso, arriviamo ad oltre il 70% della popolazione che non dimostra competenze sufficienti per comprendere in maniera compiuta la realtà che lo circonda.
Chiaramente, il fattore anagrafico gioca un ruolo importante, ma non bisogna illudersi che gli analfabeti funzionali siano presenti solo nella popolazione più anziana, perché i dati della fascia d’età più giovane (15-24 anni), con il 20% di analfabeti funzionali e il 60% complessivo di insufficienze, sono letteralmente deprimenti. Se negli over 55 gioca un ruolo importante il numero di persone nate prima del 1952, ovvero non interessate dalla riforma della Scuola Media con l’abolizione nel 1963 dell’esame di ammissione, negli under 24 gioca un ruolo tremendo l’elevatissimo numero dei NEET (Not in Education, Employment or Training), ovvero i giovani che non studiano e non lavorano, che si stima essere in Italia ben due milioni e mezzo!
Allora, è comprensibile come un’azienda che debba funzionare e competere con i suoi concorrenti (e questo vuol dire risolvere problemi nuovi ogni giorno), cerchi di creare quel minimo comune multiplo che mette le persone in grado di interagire fra di esse e con l’ambiente che le circonda per ottenere dei risultati positivi nella conduzione delle proprie attività: responsabilità dei propri spazi e strumenti, comprensione e rappresentazione oggettiva dei fenomeni osservati, metodo diagnostico nella soluzione dei problemi.
Non avere queste competenze di base è un po’ come acquistare un computer e trovarlo senza sistema operativo. È assolutamente inutile installare il programma di contabilità, se non c’è Windows. Gli italiani, oggi, dimostrano di essere così. Magari hanno il programma di contabilità compreso nel prezzo (le competenze disciplinari date dal titolo di studio conseguito), ma non hanno il sistema operativo. Perlomeno non ne hanno uno buono e solido. Non lo dico io, né gli studi di qualche organizzazione. Lo afferma con chiarezza l’attività costante di formazione che viene svolta dalle grandi aziende per assicurarsi che questo “sistema operativo” ci sia, funzioni e sia lo stesso per tutti.
Ma questo non dovrebbe farlo la famiglia, oppure la scuola? Certo, in una società ben organizzata sarebbe meglio così. Innanzitutto perché queste competenze di base non servono solo nel lavoro, ma anche nella vita di tutti i giorni (potremmo chiamarle “competenze di cittadinanza”!). Secondo, perché le aziende potrebbero dedicarsi a rafforzare le competenze “hard”, quelle professionalizzanti, il software applicativo di livello più alto che servirebbe al lavoratore a fare bene quello che deve fare nel suo specifico impiego.
Purtroppo, però, oggi la Scuola italiana, nonostante i nuovi programmi promossi dal Ministero negli ultimi 10 anni, non dimostra la capacità di metterli in pratica e, soprattutto, di produrre degli effetti migliorativi nella preparazione dei giovani che ne escono. Anche in questo caso, così come succede nelle aziende prima citate, è inutile che ci siano buone procedure di produzione (i nuovi programmi ministeriali), se gli addetti (i docenti) non hanno il software di base per tradurle in pratica in ogni diversa situazione.
Allora? 5S, 3G e 5Whys per tutti i docenti in forza nelle nostre scuole? Non sarebbe una cattiva idea… Come realizzarla? Qui sta il difficile. Verrebbe da dire, con una battuta, attraverso l’alternanza Scuola/Lavoro (dei docenti, più che degli studenti).
Pensare ad un insegnante che alterna la sua attività didattica con un’attività professionale è, però, sempre più difficile. Sia per il notevole impegno che richiede l’insegnamento, sia per l’oggettiva separazione delle carriere fra pubblico e privato. L’unica possibilità rimane allora quella di portare il Lavoro dentro la Scuola, piuttosto che il contrario. L’azienda simulata (ovvero la creazione di un’attività produttiva all’interno delle Scuole Medie Superiori, con rapporti commerciali verso l’esterno) appare in questo senso lo strumento più efficace per consentire alla Scuola di rimettersi al passo con i tempi, molto di più di quanto non siano riuscite a fare finora le controverse esperienze di alternanza Scuola/Lavoro.