“C’è del marcio in Danimarca…” diceva il personaggio di Marcello nell’Amleto di Shakespeare. E oggi potremmo dire che c’è del marcio in tutta Europa, anzi, nell’idea stessa di Unione Europea.
Lo dimostrano in maniera inequivocabile i flop delle celebrazioni per i 60 anni dai Trattati di Roma, fondativi della prima Comunità Economica Europea. Portare circa 10.000 persone in piazza di fronte ai capi dei 27 paesi oggi aderenti all’Unione si è rivelata ben magra impresa mentre, nello stesso momento, da solo, Papa Francesco portava un milione di persone in piazza a Milano.
Allo stesso tempo, a Vasto, anche l’European Day indetto dal Comune per festeggiare la ricorrenza è trascorso come una normale domenica, allietata da un concerto in piazza, ma disertata dai cittadini che si sperava si riversassero nelle strade per ricordare questo importantissimo passaggio nella nostra storia e nella nostra identità.
Cosa c’è che non va nell’Europa? Se lo chiedono in molti. Su questa stessa testata se lo è chiesto Massimo Desiati lo scorso lunedì. La sua visione (mi perdonerà se, per dovere di sintesi, generalizzo) è che l’Europa debba trasformarsi in una confederazione di Popoli, abbandonando le velleità del suo dirigismo sovranazionale. Richiamando l’idea gaulliana di “Europa delle patrie”, Desiati punta il dito contro gli eurocrati la cui funzione, a suo dire “non può essere quella di accollare sui singoli e sulle aziende pesi da sopportare”.
Il giorno prima, su il Sole24Ore, Luigi Zingales era partito da un’analoga critica rivolta alla tecnocrazia di Buxelles, affermando che l’Unione si è trasformata in “una gabbia che aumenta, invece che diminuire, i nazionalismi”, ma arrivando a proporre una soluzione diametralmente opposta a quella di Desiati. La convocazione di un’assemblea come quella con cui, a Philadelphia, gli Stati Uniti d’America riformarono il proprio ordinamento nel 1787, prendendo la forma che ancora oggi conservano: “È quello di cui ha bisogno oggi l’Europa: un’assemblea costituente eletta a suffragio universale”.
In mezzo a questi due estremi, troviamo, invece la posizione di Lorenzo Bini Smaghi, espressa mercoledì scorso, sempre su Il Sole24Ore, che, di fatto, sostiene l’attuale ordinamento e ricorda i recenti insuccessi elettorali di vari partiti antieuropeisti. Bini Smaghi afferma a proposito che “gli europei hanno capito che in pericolo non è solo l’Europa, ma la democrazia. E che l’Europa è la miglior difesa per le nostre democrazie”.
Chi ha ragione? L’Europa deve rimanere così com’è? Deve fare un passo avanti, con un’Assemblea Costituente? Oppure deve fare un passo indietro, tornando verso il modello della precedente Comunità Economica, piuttosto che l’attuale Unione?
Citando questa volta Maestro Oogway (la saggia tartaruga di King Fu Panda) di fronte alla domanda su come avrebbe fatto a riconoscere il “Guerriero Dragone”, verrebbe da dire “…e io che ne so?”. L’unica cosa che possiamo fare è cercare di comprendere se ci sia davvero una crisi degli ideali europeisti, a cosa sia collegata, a cosa ci porterà. Le soluzioni, purtroppo, saranno date più dall’evoluzione dei fenomeni che ne sono causa, piuttosto che dalle contromisure che verranno eventualmente messe in atto.
Riprendendo l’articolo di Bini Smaghi, c’è una frase sulla quale concordo e che non è affatto banale. “Il problema dell’Europa, che alcuni fanno finta di non capire, è proprio che si basa sulla democrazia”. Aggiungo io: “…con i suoi pro e i suoi contro”. Soprattutto quando le istituzioni che la regolano sono frutto dell’età moderna, di quel XX secolo a noi così vicino dal punto di vista temporale, ma già così lontano dal punto di vista sociale.
Per rendersi conto di quanto il problema non sia dell’Europa, ma della Democrazia (e, in particolare, delle sue istituzioni rappresentative e dei suoi corpi intermedi), basti pensare a come il declino degli ideali europeisti si accompagni al progressivo e ineluttabile calo della partecipazione a tutte le scadenze elettorali nazionali. Al diminuire della partecipazione politica. Alla crisi dei sindacati e delle associazioni datoriali (vedasi l’attuale situazione di Confindustria). Insomma, all’abbandono di tutta la liturgia che ha sostenuto la nostra democrazia rappresentativa nazionale per 70 anni.
Attenzione, non si tratta di un generico disimpegno o rifiuto alla partecipazione. Al contrario, rappresenta la crisi di un modello preciso che ha radici in un mondo che non è più quello attuale, un mondo in cui il modello di relazione imposto dallo sviluppo industriale aveva diviso la società in classi sociali ben distinte, sviluppato una solidarietà orizzontale al loro interno e allentato i vincoli territoriali. Oggi, al contrario, con la crisi di questo modello produttivo e sociale, assistiamo al progressivo distacco dei vecchi modelli di rappresentanza dagli interessi e dalle aspirazioni dei suoi rappresentati.
Torniamo all’esempio di Vasto e dello scarso successo di partecipazione all’European Day. Vasto è la stessa città in cui, solo un anno fa, le primarie di Centrosinistra e di Centrodestra per scegliere il candidato sindaco hanno raccolto la stratosferica partecipazione di oltre 9.000 votanti. Quanti di essi andrebbero a votare per delle primarie sui candidati al Parlamento Europeo? Penso quasi nessuno, così come si sa già che in pochi parteciperanno alle primarie per scegliere il futuro segretario (e, quindi, probabile candidato premier) del PD.
Ecco, la risposta ai motivi della crisi degli ideali europeisti sta in questo meccanismo. L’impegno e la rappresentanza sono sempre presenti, ma per gli ambiti gestionali che sentiamo nostri, realmente rilevanti per la nostra vita. Il condominio, l’associazione, al massimo la Città. Già per la Regione, facciamo fatica a sentirci partecipi di quanto accade a L’Aquila o a Teramo. Vogliamo contare per scegliere le persone che poi incontriamo tutti i giorni nella nostra vita di cittadini. Non ci interessa più di tanto farlo per quello che sentiamo come un mondo progressivamente sempre più lontano, un mondo fatto di entità (l’Italia, l’Europa) che sentiamo sempre meno nostre e, soprattutto, sempre meno unitarie.
Questo che sto descrivendo non è altro che il fenomeno noto come Glocalizzazione (da cui il più noto aggettivo Glocal), ovvero il processo per cui stiamo assistendo alla globalizzazione dei modelli di vita e di consumo, dettati dal crescere dell’interscambio economico e dei mezzi di comunicazione, e, contemporaneamente, alla localizzazione degli interessi e delle istanze identitarie.
Secondo la teoria Glocal, il fondamento della società è sempre e comunque la comunità locale, quella in cui gli individui interagiscono “realmente” fra loro. Le comunità (a partire dalla famiglia) di strutturano in organizzazioni di complessità crescente, ma, oltre la dimensione territoriale di prossimità, non si fondono in una strutture omogenee, quanto, piuttosto, si organizzano in reti di comunità che mantengono la loro identità e differenza.
In buona sostanza, la teoria Glocal è una visione di quello strano fenomeno per cui anche tu, caro lettore, stai utilizzando in questo momento il tuo tempo e la tua attenzione per leggere un giornale locale (appunto: Zonalocale), anche per soddisfare i tuoi interessi di tipo generale e, proprio per questo, hai deciso di leggere l’editoriale di questa rubrica (che, guardacaso, si intitola Zonaglobale!).
Aggiungici che lo stesso nome della città in cui è nato il giornale, Vasto, è l’espressione di questo localismo. Non dimenticare, infatti, che Vasto deriva da Guasto (Gastaldato) e che, di fatto, l’odierna città è l’evoluzione dell’accampamento militare di Aymone di Dordona e della conseguente nascita di un feudo.
Pertanto, visto che (anche se magari non lo sai…) sei assolutamente glocal anche tu, ti renderai conto che siamo avviati verso una società multipolare in cui i precedenti riferimenti statuali (le Nazioni) hanno già esaurito una parte rilevante della loro funzione storica, senza che questa funzione (culturale e identitaria, prima che organizzativa) possa essere presa da una sovrastruttura che ha preso la sua forma attuale per motivi economici e di mercato.
Se partiamo dalla convinzione che le istituzioni rispecchiano le forme che assumono gli interessi di relazione legati alla produzione ed al consumo, piuttosto che il contrario (scusatemi, ma in questo sono un vecchio materialista storico), ciò che possiamo aspettarci è che anche le nostre istituzioni di governo vadano nella stessa direzione della società reale (quella transnazionale e globalizzata di Google, Amazon, Apple, ecc.).
Lentamente, con enormi resistenze, ma con l’ineluttabile constatazione che chi non si adeguerà perderà man mano competitività nei confronti di altri modelli globali (Gli Usa, la Cina, un nuovo Commonwealth) e sarà costretto ad adeguarsi. Magari più tardi ed in forme meno graduali, ma comunque ad adeguarsi.
Perciò quanto mi aspetto è che, nel tempo, si vada inesorabilmente verso una concentrazione dei poteri di governo centrale in una dimensione più ampia di quella dei vecchi stati-nazione europei (non è detto che questa dimensione corrisponda a quella dell’odierna Unione Europea), con il progressivo venire meno di strati interi di quei 10.000 enti pubblici attualmente censiti in Italia.
Questo, però, non comporterà affatto una perdita di rilevanza della dimensione locale, anzi. Il Guasto sarà sempre più rilevante negli interessi dei suoi abitanti. Più di quanto non lo sia stato nei precedenti 70 anni di Italia repubblicana.