60 anni di Europa, meglio dire, 60 anni dai Trattati di Roma, gli atti con cui i rappresentanti di Francia, Germania Ovest, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo siglarono l’istituzione della Comunità Economica Europea (CEE) e della Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA o EURATOM). In verità, nel 1951, era già stato firmato un accordo per la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) ma la storia ci consegna la data del 25 marzo del 1957 come quella in cui nasce la Comunità europea, poi trasformatasi nell’odierna Unione. In questi giorni, si ricorda la firma di trattati poiché, di per sé, l’Europa già certo preesisteva.
La ricorrenza è stata accompagnata da molta più enfasi rispetto agli scorsi decennali ed i motivi certamente non sfuggono: in questi ultimi anni l’Unione europea ha sofferto per la scarsa considerazione popolare ed è stata avvertita come una realtà distante, percepita più per i suoi vincoli che per un popolare sentimento di appartenenza.
60 anni fa, oltre agli accordi sulle materie prime e la ricerca per la produzione delle armi, alla firma dei trattati sottintendevano valori che, in prospettiva, avrebbero dovuto rendere l’Europa un insieme, una più ampia realtà politica con unica visione d’intenti, un’istituzione comunitaria, quindi, e non solo un mercato comune. Lo si chiamò sogno europeo, aspettative per progetti comuni ed unica politica internazionale.
Alcuni obiettivi sono stati raggiunti, primo tra i quali l’assenza di guerre, accadimenti che da sempre avevano segnato le sorti degli Stati d’Europa, in costante conflitto tra loro. Francesi, tedeschi e italiani si riconobbero nel medesimo universo culturale e di valori. Oggi, a ben 60 anni dalla firma di trattati ed in forza dell’adesione all’Unione di molti altri Stati, possiamo chiederci cosa si è costruito nel corso del tempo.
Il traguardo dei 60 anni diventa un’opportunità per il rilancio dell’immagine dell’Unione ma, a riflettori accesi, anche l’occasione per fare il punto e scoprire significative zone d’ombra. Sarà perché i tempi sono quelli propri della crisi economica, quelli in cui la finanza pubblica dello Stato, delle Regioni o dei Comuni mostra tutti i propri limiti nell’accompagnare iniziative private o permettere investimenti infrastrutturali sul territorio, abbiamo una rappresentazione dell’Unione europea tale da individuarla con i contorni di una cassaforte da cui attingere risorse pubbliche. Un santo a cui votarsi. Poi, non si presentano progetti, non si è capaci di produrne e non si riesce ad intercettare finanziamenti, a differenza di altri Stati, ma, per la maggior parte del popolo italiano, l’Unione europea serve a distribuire finanziamenti. Non questo o, almeno, non solo questo sarebbe dovuto essere l’obiettivo per chi la volle ma si deve prendere atto dell’esistenza, negli anni, del tentativo di trasformare il Progetto europeo in una occasione di predominio finanziario. Guerre di sangue, tra Paesi d’Europa, non ve ne sono più state ma altro tipo di guerra si combatte, ogni giorno, sui campi del Mercato, delle Borse e delle Banche.
La Comunità europea nacque con l’intento di difendere l’Identità culturale dei Popoli, specificità che, nel loro insieme, avrebbero potuto e dovuto produrre comuni denominatori capaci di affermare logiche di benessere per tutti i Popoli partecipanti. Nel verificare quanto prodotto in 60 anni, c’è da chiedersi se questo sia avvenuto. Quando si paventarono gli iniziali rischi del “mondialismo”, inteso quale affermazione di realtà sovranazionali, l’Europa avrebbe dovuto rappresentare un’alternativa geopolitica di garanzia per i suoi Stati membri ma questo non è accaduto ed anzi è al suo interno che si sono create le condizioni affinché tecnocrazia, finanza e burocrazia soffocassero sovranità ed identità nazionali che, invece, avrebbero dovuto rappresentare ricchezza per l’Europa considerata nel suo insieme.
L’Europa ha gli elementi di forza nella propria Tradizione, nella propria Storia e nella capacità di produrre Politica. I suoi organismi istituzionali sono chiamati a risolvere le disparità tra i suoi Stati membri ed a rendere armoniose le proprie politiche comunitarie, siano esse economiche, monetarie, occupazionali e sociali, per tutti gli Stati aderenti.
Possiamo continuare a credere nell’Europa unita e nell’integrazione dei suoi Popoli, purché essa sia in grado di esprimere, nei confronti di chi Europeo non è, una realtà dai profili socio-culturali ben delineati, difendendo le identità delle proprie Nazioni. Un Europa dei Popoli, capace di superare gli egoismi nazionali ma anche in grado di determinare politiche comunitarie unitarie e coordinate di cui ogni Stato deve poter beneficiare.
Anche volendo considerare la ragion d’essere dell’Unione Europea dal solo punto di vista strettamente economico (cosa che già di per sé tradirebbe l’ispirazione originaria), appare indispensabile rompere l’accerchiamento degli eurocrati, la cui funzione non può essere quella di accollare su singoli e sulle aziende pesi da sopportare nel mentre altre economie godono di normative che permettono di spaziare sui mercati mondiali globalizzati, a volte, finanche in dispregio dei diritti delle proprie popolazioni.
Se l’Europa vorrà sopravvivere alle Brexit, Frexit, Itexit, Grexit …, dovrà tornare a dar significato ai valori propri delle identità nazionali, poiché i trattati di cui si celebra oggi il 60esimo non possono rappresentare una semplice alleanza tra Stati su specifiche questioni ma una unità di Popoli a servizio dell’Uomo. Il Popolo d’Europa non deve rappresentare target di mercato per realtà plutocratiche (individui o gruppi finanziari) e alla sua guida non devono poterci essere tecnocrati senz’anima bensì politici liberi e capaci di svolgere la propria azione al servizio dei Popoli d’Europa.