Lo scorso lunedì, Pianeta a Vasto e Adriatica a Lanciano (le società che gestiscono gli ipermercati Conad delle due città) hanno rotto la trattativa con i sindacati per il rinnovo dei contratti di solidarietà di ben 69 lavoratori dei due centri commerciali. Se non si dovesse giungere ad un accordo “in extremis”, 45 dipendenti a Vasto e 24 a Lanciano saranno licenziati.
Nel weekend precedente, era invece apparsa la notizia che, nel 2016, il Comune di Vasto è stato il quarto in Italia per l’utilizzo dei voucher, i buoni lavoro che retribuiscono “prestazioni di lavoro occasionale di tipo accessorio”. Il Comune avrebbe impiegato questa forma agevolata per retribuire 73 lavoratori.
Ambedue le notizie hanno avuto una notevole eco, soprattutto da parte dei sindacati e di alcuni esponenti politici che si sono scagliati contro queste situazioni “inique”, sollecitando la pubblica opinione a prendere posizione in difesa del “diritto al lavoro”. Allo stesso tempo, entrambe le notizie non sono affatto una novità e dovrebbero essere occasione di riflessioni più approfondite per comprendere cosa sta succedendo sul mercato del lavoro della nostra zona (locale) e, più in generale, del resto del mondo (globale).
Iniziamo andando oltre i semplici titoli.
I licenziamenti annunciati da Conad fanno riferimento, purtroppo, a 69 lavoratori che sono in contratto di solidarietà da oltre 4 anni. Nel 2012, infatti, i due grandi ipermercati frentani hanno iniziato una riduzione del personale resa necessaria dalla progressiva diminuzione delle vendite. La riduzione, finora, è avvenuta tramite la riduzione degli orari e la turnazione dei lavoratori (contratti di solidarietà), ma, a seguito di una ulteriore riduzione del 20% del fatturato, questa oggi non è più sufficiente per garantire la sostenibilità economica dei due punti vendita.
Conad ha proposto la proroga per ulteriori 18 mesi dei contratti di solidarietà, ma senza le garanzie precedenti (i lavoratori avrebbero potuto essere chiamati per meno di 3 ore al giorno e per meno di 18 ore a settimana) e i sindacati si sono opposti, portando l’azienda a ritirare la sua disponibilità alla misura di solidarietà e ad annunciare il prossimo licenziamento dei 69 lavoratori.
Relativamente alla vicenda dei voucher, invece, ciò che viene contestato dai sindacati è l’esiguità della paga, unita alla mancanza di tutele per i lavoratori pagati con i voucher. Mancanza parziale di tutele previdenziali (la maturazione della pensione), in quanto la quota di contributi versata per ogni voucher è pari a 1,3 euro (un contratto da dipendente al minimo salariale oggi produce circa 4 euro di versamento contributivo per ogni ora effettivamente lavorata). Mancanza totale di tutele assistenziali (il sostegno al reddito in mancanza delle condizioni di prosecuzione del lavoro), in quanto i voucher non danno diritto né a indennità di disoccupazione, né a maternità o mutua per malattia.
Le due notizie sono quindi due facce della stessa medaglia. I datori di lavoro (si badi, privati, ma anche pubblici) chiedono flessibilità. I lavoratori (rappresentati dai sindacati) la vorrebbero negare. Sia in uscita (non si licenzia!) che in entrata (basta voucher!).
Si tratta su entrambi i fronti di interessi legittimi, ma inconciliabili e destinati a collidere. Forse in futuro anche ad esplodere. La situazione del mercato del lavoro, infatti, è stata artificiosamente drogata dal precedente Governo. Soprattutto nel 2015 attraverso lo strumento della decontribuzione (contributi gratis per tutti i nuovi assunti di quell’anno). Quando queste misure eccezionali scadranno, ovvero nel 2018, avremo una raffica di licenziamenti.
Saranno procedure più facili in base al Jobs Act ed alla cancellazione dell’art. 18, ma comunque porteranno un forte conflittualità e una situazione che diventerà ancora più difficile gestire per chi opera a qualsiasi titolo nel mondo economico italiano. In Abruzzo, inoltre, avremo anche l’effetto del venir meno di analoghe misure di sostegno all’occupazione (bonus fino a 12.000 euro per l’assunzione di particolari categorie) operate a livello regionale.
A cosa ci dobbiamo preparare, quindi? Aveva ragione il compianto Lucio Dalla, quando cantava “… c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra”?
Sì, Lucio Dalla scriveva questi versi (ne “L’anno che verrà”) nel 1979. Eravamo nel pieno degli anni di piombo e l’Italia aveva molte preoccupazioni. Non solo il terrorismo, ma anche la crisi industriale ed una fortissima conflittualità sociale non ancora risolta dal “riflusso” iniziato con la marcia dei 40.000 nel 1980.
Oggi non abbiamo quella conflittualità diffusa e difficilmente la vedremo tornare. La ricchezza accumulata farà da ammortizzatore ancora per qualche anno, ma questo non significa che non sia necessario preoccuparsi poiché i fenomeni a cui andiamo incontro modificheranno la nostra struttura economica e, ancor di più, quella sociale.
In Italia, oggi, il lavoro è debole e lo sarà sempre di più nei prossimi anni. Nonostante i titoli dei giornali nazionali (che rilanciano instancabilmente gli aumenti dello “zerovirgola” rispetto allo stesso mese dell’anno precedente), la tragica realtà è che, rispetto al 2008, in Italia ci sono fra i 2.000.000 ed i 3.500.000 posti di lavoro in meno (a seconda di come viene calcolato il dato). A nulla è valso, neanche sul breve termine, lo sforzo del precedente governo che, pur regalando 3 anni di contributi per ogni nuovo assunto, non ha ottenuto che, appunto, degli “zerovirgola”.
Debole è il lavoratore, che potrà cercare di appellarsi alla tradizionale rigidità strutturale del nostro inquadramento giuslavoristico, ma con il contraccolpo di deprimere le piccole imprese (non attrezzate a sostenere questo tipo di conflittualità), avvantaggiare le grandi (soprattutto multinazionali) e, in buona sostanza, riducendo le proprie possibilità di avere una buona occupazione (o anche solo un’occupazione) nel proprio territorio.
Soprattutto, quello che non si vede è il “debole” per il lavoro. Il dato davvero allarmante è il numero degli inoccupati. Soprattutto fra i giovani. In Italia lavora all’incirca una persona su 3, ovvero 22.700.000 milioni di persone (un dato bassissimo rispetto a qualsiasi altro paese europeo). Inoltre, fra i giovani nell’età 15-29 anni, i NEET (Not in Education, Employment, or Training) sono oltre il 25%, mentre la media europea è del 14,8%. Siamo il paese con la più alta percentuale di giovani che non studiano, non lavorano e non sono in addestramento per qualcosa.
Quali sono i rimedi? Difficile dirlo, perché, in realtà, non esistono “rimedi”. Il mercato del lavoro reagisce a politiche strutturali di ampio respiro e le variazioni indotte con stimoli congiunturali sono surrettizie. Bruciano come un fiammifero, lasciando un po’ di cenere e, al massimo, qualche dito bruciato.
Quello che voglio fare, però, è ricordare alcuni aspetti con cui sarà necessario fare i conti nel prossimo futuro.
1. Le trasformazioni tecnologiche (a cui tutti partecipiamo come consumatori, non è necessario lavorare in un’azienda di robotica per rendersene conto…) stanno modificando il mercato globale del lavoro. Non è vero, in generale, che tutto il lavoro sia destinato a diminuire. Alcune professionalità saranno sempre più richieste (per esempio, l’ingegnere che progetta i robot di cui sopra), altre sempre meno.
2. Le professionalità meno richieste, quelle che producono il minor valore aggiunto (vedi i lavoratori del caso Conad, sostituiti progressivamente dall’abbonamento Amazon Prime che molti di voi che leggete avete sottoscritto a avete pensato di sottoscrivere…) sono destinate a diminuire e, soprattutto, ad essere pagate sempre meno.
3. La riduzione del costo del lavoro per questi lavoratori, se non verrà scaricata sull’erario pubblico (la cosiddetta “riduzione del cuneo fiscale”) e accompagnata da una complementare redistribuzione del reddito che oggi viene riconosciuto ad altre categorie attraverso onerosi trasferimenti (…leggi “pensioni”), non potrà che essere scaricata sui lavoratori. Ci sarà, quindi, una riduzione delle tutele (vedi uso dei voucher) e, laddove ciò non risulti possibile, i salari nominali rimarranno fermi e saranno erosi dall’inflazione.
4. Le misure di irrigidimento del mercato del lavoro si dimostrano controproducenti. Molte aziende oggi non hanno più i vincoli materiali di una volta (i capitali sono investiti spesso in beni e strumenti immateriali). Pertanto, se non incontrano un ambiente favorevole, si trasferiscono. Combattere contro i licenziamenti di un’azienda in crisi è come mantenere il tappo in una vasca ormai colma. Finirà per traboccare.
5. L’Italia è condizionata da una bassa produttività del lavoro. Questo non significa che i lavoratori italiani lavorino poco, ma che il loro lavoro produce meno valore aggiunto di quello che produce, in media, un lavoratore tedesco, francese o svedese. I sindacati dovrebbero occuparsi di questo, piuttosto che arroccarsi sulle posizioni antistoriche di difesa delle rigidità. Dovrebbero pretendere da imprenditori e datori di lavoro (anche pubblici) investimenti concreti in mezzi di produzione.
6. L’Italia è condizionata anche da alti salari (lordi). Il nostro costo del lavoro è altissimo (il datore di lavoro riesce a dare al lavoratore meno della metà di quanto questi gli costa, dato che il resto va allo stato) e, soprattutto, paghiamo la rivalutazione forzosa della nostra moneta operata con l’ingresso nell’euro avvenuto 15 anni fa.
7. Il cambio fra lira ed euro fissato a 1936,27 (quando, a mio parere, doveva essere almeno del 20-25% più basso, ovvero almeno 2.500 lire per euro), ha avuto due effetti. Ha aumentato, come detto, il costo di “produzione del valore” rispetto agli altri paesi dell’area euro. Sul breve termine, però, ci ha anche reso più ricchi (ha aumentato le nostre possibilità di spesa e, soprattutto, di importazione di beni esteri).
8. Questa nuova ricchezza, del tutto nominale ed improduttiva, ci ha alla lunga ulteriormente indeboliti, proprio perché ha creato un interesse degli operatori stranieri di molti settori ad operare in Italia per godere degli alti livelli di consumo che si sono sviluppati. Nell’arco di 15 anni, moltissimi capitali (aziendali, tecnologici, umani) sono stati assorbiti, direi anzi letteralmente risucchiati da altre nazioni europee e, oggi, anche dalla Cina, lasciandoci molto più deboli e meno capaci di reagire.
9. Lanciano, Vasto e le loro vallate hanno un’economia più rigida rispetto al resto dell’Abruzzo e ad altre zone del centro-sud. Abbiamo grandi industrie manifatturiere, intensità di capitali e, soprattutto, ancora parecchi investimenti materiali in impianti e in attrezzature. Se questo ci ha reso più solidi in passato, rende in realtà il nostro territorio più fragile per il futuro perché, se anche solo uno dei grandi stabilimenti della zona dovesse chiudere (per decisioni prese a 10.000 km di distanza), l’economia di tutta la zona ne verrebbe letteralmente devastata.
10. I paesi più simili al nostro (i grandi paesi europei) stanno fondando la loro partecipazione alla competizione globale sul terziario avanzato. Ognuno si sta specializzando in qualcosa. La Germania sull’engineering, l’Inghilterra sulla finanza. Non possiamo pensare di avere uno sviluppo armonico in futuro se non riusciremo a sviluppare una presenza significativa nei servizi immateriali, perché sono quelli a maggior valore aggiunto. Nel nostro territorio la loro mancanza è particolarmente evidente e questo è un altro fattore di debolezza che, sul lungo termine, non potrà non pesare su tutta la struttura sociale.