Quando la sera dello scorso mercoledì ho saputo dell’omicidio di Italo, sono rimasto sgomento. Altre due tragedie si aggiungevano a quella che aveva portato via Roberta: la morte di Italo e l’atto scellerato di cui si era macchiato Fabio. Tre giovani vite distrutte, tre famiglie annichilite dal dolore.
Il giorno dopo mi sono svegliato sentendomi anch’io colpevole di quanto era successo. Non conoscevo, se non di vista, nessuno dei tre giovani. Conoscevo però bene alcuni di coloro che, negli ultimi mesi, si erano fatti promotori della campagna Giustizia per Roberta nelle sue diverse forme. Da quelle più belle e solidali a quelle, purtroppo, più becere, intessute di odio e desiderio di vendetta.
Tante volte, guardando gli striscioni o i post sul web, avevo provato un forte disagio, poiché conoscevo i discorsi che li alimentavano. Avevo paura di cosa potesse generare questa mobilitazione. Eppure non ho fatto nulla. Certo, probabilmente non avrei sortito alcun effetto. Anche se avessi parlato con alcuni di coloro che “cercavano giustizia”, probabilmente avrei ottenuto solo scherno. Ma avrei dovuto portare una testimonianza. La mia, unita ad altre, forse avrebbe potuto far germogliare in loro il bisogno di riflettere sul senso di quello che stava succedendo. Non l’ho fatto, ho preferito rimanere in silenzio. Per questo anch’io sono colpevole.
Non ho mai detto loro che stavano sbagliando a parlare di “giustizia”, perché cercavano in realtà un contrappeso alla perdita della vita di Roberta. Non ho detto loro che la giustizia la fa la comunità per il fine di preservare e promuovere il senso del suo stare insieme, mentre quella che si fa da soli si chiama ritorsione e, se mai il suo pensiero placa il senso di vuoto creato dalla mancanza di quanto è stato sottratto, essa non porta comunque mai nulla di buono alla società. Non ho detto che le parole avventate che si pronunciavano con così grande facilità erano pericolose, perché avrebbero comunque creato un contrasto insanabile fra due famiglie e due parti della città, avrebbero portato quella “disamistade” che in altre culture (la Sardegna, terra d’origine della mia famiglia) è alla base del codice barbaricino e della faida. Potevo farlo e non l’ho fatto. Come me, tanti che hanno esperienza e intellezione di ciò che voglia dire la violenza e di quanto essa sia distruttiva, potevano farlo. Ma non l’hanno fatto. Per questo siamo tutti colpevoli e per questo dobbiamo anche noi chiedere perdono.
Dobbiamo chiederlo perché questo non è più il momento di voltarsi dall’altra parte. Non è più il momento di crearsi degli alibi o nascondersi dietro la sospensione del giudizio. Certo, verso le tragedie individuali dei protagonisti di questo dramma, il cordoglio, il “soffrire insieme a loro”, non può che esprimersi attraverso un rispettoso silenzio. Ma verso noi stessi, la nostra comunità, la sua perdita di coesione e di valori di riferimento, questo non può essere il momento del silenzio. Non può essere quello che qualcuno oggi liquida con un cinico “The show must go on”, a difesa di una onorabilità di Vasto che sarebbe altrimenti compromessa dall’accanirsi dei discorsi attorno al triste evento di cronaca.
Passato lo sgomento, terminata la doverosa riflessione, questo è il momento per iniziare a riflettere insieme. Innanzitutto dobbiamo rifiutare e respingere la morbosità di quanti vorranno fare ulteriore scempio di questa tragedia, rendendola chiacchiera da talk show per una nazione assetata di storie drammatiche. Allo tesso tempo, però, dobbiamo guardare dentro noi stessi per trarne uno spunto, un germoglio che ci porti a comprendere e a far di nuovo nostro il senso, sia civile che cristiano, del nostro essere comunità. Dobbiamo recuperarne il senso civile, poiché in questi mesi alcuni hanno creato e poi sfruttato una pericolosa perdita di fiducia nella magistratura e nella polizia. Questa fiducia oggi va ricostruita e cementata.
Inoltre non possiamo dimenticare che questa tragedia ha avuto origine dall’ennesimo incendente stradale. Troppi ce ne sono stati da quando ne ho memoria e lo scorso anno è stato un vero annus horribilis. Le nostre strade sono pericolose, particolarmente pericolose, ed è necessario iniziare a prendere misure, sia nella viabilità che nell’educazione stradale, per non dover piangere più tutte queste vite.
Dobbiamo però recuperare anche il senso cristiano del nostro stare insieme, poiché in queste vicende abbiamo visto, fin dall’inizio, il rifiuto di comprendere le ragioni degli altri e l’incapacità di ammettere le proprie colpe. La comprensione e la responsabilità (la capacità di perdonare, ma anche di saper chiedere perdono) vanno evidentemente riaffermate, poiché sembrano sparite e, con esse, sembra sparita la luce che dovrebbe guidare ogni comunità. Quando recitiamo il Padre Nostro, dovremmo prestare più attenzione a quei versi in cui diciamo “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo a nostri debitori”. Dovremmo ricordare il loro vero significato: “perdonaci e rendici capaci di perdonare”, perché è sulla capacità di ammettere la propria colpa che si basano il pentimento ed il successivo perdono, vero fondamento del nostro essere cristiani.
Oggi, quindi, non possiamo soffermarci sulle responsabilità individuali di coloro che sono stati coinvolti nella tragedia. Su quelle, ripeto, è giusto osservare il silenzio, come tanti invocano. Sulle nostre colpe, invece, su quelle di tutti, abbiamo il dovere di parlare e di chiederci perché abbiamo smarrito la nostra stessa identità di Cristiani. Cristiani non necessariamente nel senso di fedeli, ma anche, semplicemente, di persone che si riconoscono in un quadro di valori, in quello che potremmo chiamare semplicemente “Bene”.
Questo perché, nella vicenda di Italo, Roberta e Fabio, il “Bene” è stato spesso dimenticato. Tanti hanno guardato insistentemente la pagliuzza nell’occhio dell’altro per non ammettere la trave infissa nel proprio cuore. E, allo stesso tempo, tanti hanno ripetutamente scagliato la prima pietra, pur sapendo di non essere certo senza peccato. Gli altri hanno fatto finta di non guardare. Ecco, adesso che abbiamo visto a quale immane tragedia ha portato il lasciarsi andare a questi sentimenti, alla logica del branco, alla distorsione del concetto di onore (la “balentia” del codice barbaricino), alla ignavia derivante dall’errata interpretazione dell’unidicesimo comandamento, adesso che abbiamo toccato con mano a quale limite ci siamo spinti, non possiamo che stringerci e provare a tornare indietro.
Ciò che è successo Vasto sarebbe potuto accadere in qualsiasi altro posto in Italia. Facciamo che Vasto sia speciale non per ciò che è accaduto, ma per ciò che succederà dopo. Questo è l’unico modo per onorare davvero le vittime e fare in modo che il loro sacrificio non sia vano.
Alessandro Obino