L’Italia ha un passato legato all’emigrazione, attualmente, data la crisi economica mondiale, i giovani e meno giovani hanno ricominciato a migrare verso mete lontane in cerca di fortuna. Alcuni di loro però tornano e riadattarsi non è sempre semplice. Il paese natale tanto amato durante la loro assenza è andato avanti e i luoghi che hanno continuato a vivere immutati nei ricordi non sono più gli stessi. Per descrivere al meglio questo disagio abbiamo intervistato un testimone, un uomo coraggioso che ha vissuto e sta vivendo in prima persona il dramma del ritorno nella sua amata Vasto. Questo eroe dei giorni nostri si chiama Antonio Sapone, vastese da oltre 10 generazioni e portavoce di una condizione in cui tanti altri nostri concittadini si riusciranno tristemente a specchiare.
Era l’undici febbraio 2014 quando decisi di emigrare verso il lontano Molise terra famosa nel mondo per le sue campane, speranzoso di riuscire ad inserirmi nell’artigianato locale come produttore di batacchi. Non avevo però fatto i conti con la lingua, Agnone meglio conosciuta dalle nostre parti come “il grande Agno” ha una pronuncia molto diversa dalla nostra il che rendeva la comunicazione, anche per le questioni più semplici… difficilissima, e i molisani erano restii dall’aiutarmi a comprenderli. Dopo una quindicina di giorni capii che il legame alla mia amata Vasto era più forte di quel che credevo, e che non sarei resistito un giorno di più nei panni dello straniero, quello che la gente guarda con astio per il diverso colore della pelle, additato come ladro di lavoro. Presi l’aereo da Napoli (Napoli è una città situata in Campania a km di distanza da Agnone) che mi lasciò a Pescara. Durante il tragitto in autobus, Pescara-Vasto pensai agli amici, all’imbarazzo di rivederli dopo tanto tempo, chissà, magari alcuni avrebbero faticato a riconoscermi, altri mi pensavano già imprenditore della “Batacchi in sapone s.r.l.” e sarebbero rimasti delusi nel sapermi il vecchio Sapone di un tempo.
Questi pensieri mi accompagnarono fino al terminal degli autobus dove ritrovai la mia auto esattamente come l’avevo parcheggiata, quindi la misi in moto ed ebbi la triste idea di fare un giro prima di tornare a casa. Iniziai a guardarmi attorno spaesato, i sensi unici erano cambiati senza motivo apparente, nei pressi del cinema Globo erano presenti le indicazioni di una rotatoria invisibile, risultato delle nuove tecnologie militari applicate ad uso civile (le rotea/stealth). Ebbi paura. Sì, per la prima volta la mia città mi stava spaventando, il terrore di trovare un cefalo nel brodetto s’impadronì di me, accostai l’auto e piansi. Ma proprio quando stavo perdendo le speranze vidi un ragazzo vagare in evidente stato confusionale, ancora con le lacrime agli occhi scesi dall’auto lo avvicinai e gli chiesi: “cosa hanno fatto alla mia città?”. Lui mi abbracciò singhiozzando e poi mi rivelò la sua amara verità: “non so, non so cosa sta accadendo ma io giuro che quando ho parcheggiato il muso della mia macchina era rivolto nel giusto senso di marcia e ora no, non lo è più, la strada deve essere ruotata e il divieto d’accesso si è quindi invertito, non mi lasci solo ho paura”. Lo invitai a salire a bordo del mio veicolo, e lui una volta calmatosi mi fece fare un giro panoramico per quelle strade un tempo conosciute. Per svoltare al parcheggio del comune rischiai di schiantarmi contro un inutile spartitraffico e il ragazzo mi spiegò che serviva a ristringere la carreggiata, “un esperimento sul livello di sopportazione umana e sullo spirito di adattamento dell’uomo alle infrastrutture di dubbia utilità”. Sentire la sua voce rotta dal pianto mi stringeva il cuore come in una morsa d’acciaio. Il tour continuò e fu nei pressi dei Due pini che vidi una scena strana, un cane cercava di prendersi la coda correndo attorno ad una piccolissima rotatoria, poi il ragazzo m’illuminò, quella che avevo erroneamente scambiato per una rotatoria era il cerchione di un camion dipinto e attaccato all’asfalto da giovani burloni in vena di scherzi, come non ci ero arrivato, nessuno avrebbe mai fatto un lavoro tanto scriteriato. La vista di questo ennesimo scempio mi debilitò a tal punto da voler solo tornare a casa.
Grazie ad un passato da marinaio riuscii ad orientarmi guardando le stelle ma la loro luce mi condusse ad un’altra improbabile piccola rotatoria situata in via Ciccarone. Ero disperato e roteante, allora il giovane passeggero cercò di tirarmi su il morale promettendomi una sorpresa e un po’ di emozione. Mi guidò fino alla circonvallazione Istoniense e mi fece fermare al semaforo dell’ incrocio con via Paul Harris dicendomi: “ora aspetta il verde e scatta il più velocemente possibile svoltando a sinistra, cerca di non farti rubare il fazzoletto dall’automobilista fermo al semaforo di fronte”. Un signore vestito da arbitro sportivo reggeva infatti un fazzoletto bianco e quando vide i mezzi fermi dare gas urlò: “NUMERIII, NUMERIII…UNOOOO”, io e l’altro concorrente ci guardammo per un istante mentre cacciavamo il braccio dal finestrino, il rombo dei motori e lo stridere dei copertoni sull’asfalto anticiparono lo scatto dei due autoveicoli, un attimo di confusione, ci sfiorammo e poi il silenzio. Aprii lentamente la mano, avevo vinto, il fazzoletto era li nel mio pugno, scesi m’inginocchiai a terra e urlai con tutto il fiato che avevo in corpo: “SIIIIII HO VINTOOOO IOOOO IL MIO NOME E’ ANTONIO SAPONEEE”. Ancora eccitato chiesi al ragazzo: “dimmi amico mio cosa ho vinto?”. Lui mi mise una mano sulla spalla, sguardo rivolto verso l’orizzonte e disse: “la macchina intatta non ti basta? Sapevo che ci saresti riuscito Antonio Sapone”.
Risalimmo in macchina e con ancora l’adrenalina in corpo riportai la sfortunata vittima del cambio di senso di marcia al suo mezzo e vedendolo rattristarsi nuovamente lo salutai con queste parole: “non guardare il cartello, non farlo, sei giovane hai tutta la vita davanti, abbassa gli occhi gira l’auto e torna a casa”, mi sorrise lo sventurato e poi sparì tra le ombre dei sensi unici che lo guardavano minacciosi. Da questa esperienza ho imparato che Vasto non mi appartiene più, o io non appartengo più a lei, la decisione di trasferirmi in un luogo esente da mutamenti dalla fine degli anni 70 come Vasto Marina non è stata facile, ma un uomo deve pur trovare la propria dimensione nella quale vivere e io devo ricominciare da capo come un emigrante in terra natale.
Questa è la testimonianza reale di un uomo vittima di una scelta azzardata, dettata dalla naturale ricerca di stabilità economica, che invece di trovare un futuro ha perso il suo passato e la propria direzione.
Andrea Ianez